All’interno di una desolata fattoria spersa tra i campi, c’è una pentola con della minestra che sfrigola sul fuoco. Un uomo con indosso un impermeabile e un cappello di feltro gira la zuppa, poi si siede su un divano e attende, mentre la luce esterna del sole si fa sempre più fioca. Fuori la casa atterra un velivolo e ne esce un uomo in tuta che entra nella fattoria e non bada al tizio in impermeabile. Va verso la minestra, la gira e chiede al tipo seduto se ne vuole un assaggio. Quest’ultimo tira fuori la pistola e dice di essere Deckard, dell’unità Blade Runner. È un attimo prima che faccia fuoco e abbatta l’altro in tuta. Si cala su di lui, gli ficca una mano in bocca e ne estrae la mandibola con tanto di numero di serie stampato. Si infila la mascella nell’impermeabile, esce dalla fattoria, sale sul suo spinner (auto volante della polizia) e vola via mentre un cane abbaia.
Quello che vi abbiamo raccontato doveva essere l’inizio di Blade Runner, almeno in una delle prime versioni della sceneggiatura di Hampton Fancher. Se avete visto il sequel di Denis Villeneuve Blade Runner 2049, vi accorgerete che l’incipit è praticamente lo stesso, con l’agente K al posto di Deckard. Questo per dire che del film di culto di Ridley Scott, distribuito nelle sale americane il 25 Giugno 1982 e che compie oggi 40 anni, non si butta via nulla. Blade Runner fu una tale fucina di intuizioni e idee, ripensate e poi scartate, che basterebbero per altri 2 o 3 film. Se pensiamo al lungo processo che ha portato alla definizione del film di Scott, con ripensamenti e infinite riscritture, nonché con l’ingaggio di un secondo sceneggiatore, David Webb Peoples, sembra quasi naturale che qualche idea, tra l’altro efficace, rimasta sul pavimento della sala scrittura sia stata riciclata per l’attesissimo sequel (che consigliamo di recuperare). Lo stesso Scott, come è risaputo, dovette riciclare gli scarti di Kubrick delle riprese in elicottero realizzate per Shining, da inserire nel nuovo finale, più solare e rassicurante, aggiunto in modo raffazzonato per accontentare i produttori. Della lavorazione travagliata di Blade Runner sono stati scritti libri e realizzati documentari (tra cui il bellissimo Dangerous Days, dal titolo di lavorazione del film), tanto da diventare essa stessa leggenda. È stata la prima opera a imporre la moda del Director’s Cut e, in quel caso, a ragione. Del classico di Scott, definito dal mago degli effetti speciali Douglas Trumbull, il Casablanca della fantascienza, esistono ben 5 versioni, compreso il Final Cut del 2007 che, sembra, abbia concluso la vicenda.
Cosa ci rende umani?
Sebbene negli ultimi decenni Hollywood abbia saccheggiato la narrativa di Philip K. Dick, in realtà è stata scalfita solo la superficie di questo profetico e visionario anticipatore del futuro. Fu proprio con il cult di Scott che il cinema cominciò ad attingere al suo enorme bacino di idee, distribuite tra 46 romanzi e decine di racconti, a cominciare appunto da Gli androidi sognano pecore elettriche, titolo fulminante del 1968 (Il cacciatore di androidi in italiano), che forse non era neanche il suo capolavoro, sebbene zeppo di idee geniali. Alcune non furono riprese nel film di Scott, come quella degli animali artificiali diventati status symbol in un mondo in cui moltissime specie si sono ormai estinte. Oppure quella del profeta empatico Wilbur Mercer, guru che si connette ai suoi adoratori tramite un’inquietante scatola empatica. Del romanzo rimangono le idee di base, la struttura e i personaggi principali, proprio a causa dell’enorme lavoro di riscrittura di cui accennavamo. Eppure di Dick resta una cosa fondamentale: la riflessione riguardo ciò che è umano e ciò che non lo è o, in altre parole, riguardo cos’è che ci rende umani. La risposta dello scrittore era semplice e disarmante: l’empatia. La stessa che prova Roy Batty nell’iconico finale in cui salva la vita a Deckard, “forse perché in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata. Non solo la sua vita: la vita di chiunque”, come spiegato, fin troppo didascalicamente, dalla voce fuori campo di Harrison Ford, aggiunta in quella scena davvero a sproposito. Ma il concetto rimane. L’invito che Dick rivolgeva accoratamente ai suoi lettori e che Scott riprende con altrettanto vigore è proprio quello di non vivere da replicanti, di non obbedire agli ordini, sparando magari alle spalle di qualcuno disarmato (come nella struggente scena della morte di Zhora), ma di entrare invece in contatto con la propria empatia e restare dunque umani.
Replicanti come bambini
A ben vedere, i replicanti sono come bambini, che sanno meravigliarsi ancora per le cose del mondo. Proprio come i bimbi scoprono cose nuove e, anche quando sono violenti, conservano paradossalmente l’innocenza di quello sguardo, proprio come quando giocano in modo pericoloso senza rendersene conto. I replicanti non sono giocattoli animatronici, come i pupazzi della casa di J. F. Sebastian, eppure del gioco e dello sperimentare il mondo fanno il loro stile di vita. Pris si dipinge la faccia come un clown, Zhora gioca con i serpenti, Leon è puro istinto animalesco e Roy Batty ha il senso dell’umorismo e gioca sadicamente con la sua preda, come un bambino farebbe con una lucertola, per il gusto di sperimentare. Cos’è infine l’iconico monologo finale di Batty sulle navi da guerra in fiamme al di là dei bastioni di Orione e i raggi B che balenano vicino alle porte di Tannhäuser, se non un ultimo poetico colpo di coda di chi fino all’ultimo si meraviglia per il miracolo dell’esistenza? Il compianto Rutger Hauer entrò nella leggenda, aggiungendo la frase sui momenti perduti nel tempo come lacrime nella pioggia e, soprattutto, donando a Roy Batty, secondo le sue stesse parole, “un senso del bambino, un senso della poesia, un senso dell’anima e della sessualità”.
Essere in anticipo è come essere in ritardo
Ridley Scott riassume con questa frase il problema che ebbe Blade Runner con gli spettatori all’epoca. Complice il tenero e grinzoso alieno E.T. con cui Spielberg ammaliò il pubblico nel giugno del 1982, l’uscita di una storia apparentemente fantascientifica e d’azione (come veniva mostrato dal trailer), ma in realtà tetra, dai complessi risvolti filosofici e dall’andamento di un romanzo hard-boiled alla Raymond Chandler (creatore del detective Marlowe per intenderci), non fu accolta affatto bene. Il futuro cupo realizzato da Scott era diverso da qualunque idea di futuro, spesso asettica e immacolata, rappresentata fino a quel momento. Come rilevato dallo stesso autore, il film era troppo in anticipo sui tempi.
Sappiamo come sono andate le cose in seguito: grazie alle uscite in home video si creò un incredibile e virtuoso passaparola, ancor più sorprendente per tempi pre-internet, fino a fargli guadagnare lo status di cult e a provocare, nel 1992, l’uscita del Director’s Cut. La cosa raggiunse il suo culmine quando nelle classifiche dei film più belli della storia del cinema, annualmente redatte dai critici, arrivò primo davanti a Quarto Potere di Orson Welles.
Coordinare la bellezza
Lo scopo di Ridley Scott, nel realizzare Blade Runner, era quello di coordinare la bellezza. Ogni ripresa doveva essere fantastica. In effetti è ciò verso cui ogni regista dovrebbe tendere, e gli riuscì egregiamente mettendo insieme una squadra di professionisti di prim’ordine, dal direttore della fotografia Jordan Cronenweth, al mago degli effetti speciali Douglas Trumbull, dallo scenografo Lawrence G. Paull (coadiuvato da un nutrito reparto), al compositore Vangelis (da poco scomparso) che diede al film un tocco etereo e al tempo stesso cyber con le sue musiche sintetiche. Infine il cast, capitanato dai divi Harrison Ford e Rutger Hauer, nonché arricchito dalle nuove scoperte Sean Young e Daryl Hannah, da un’affermata attrice come Joanna Cassidy e da caratteristi come Brion James e Edward James Olmos.
Blade Runner è probabilmente il film noir sci-fi che più di tutti ha imposto un immaginario e un’estetica per ciò che riguarda la rappresentazione del futuro. Da allora in poi, quando vediamo un’ambientazione dark, bagnata dalla pioggia, immersa in architetture futuristiche affascinanti, e al tempo stesso opprimenti, la prima cosa che pensiamo è: “Ecco un film alla Blade Runner”. E la stessa formula utilizzano i registi, gli sceneggiatori e gli scenografi quando, lavorando a un film, per intendersi subito, vogliono riferirsi ad un’ambientazione analoga di riferimento. Basti guardare Matrix, film che a sua volta impose un suo immaginario, e in particolare la città delle macchine così come viene mostrata da Morpheus quando spiega a Neo la verità sulla natura della realtà.
Molti hanno giustamente rilevato l’influenza del capolavoro Metropolis (1927) di Fritz Lang sulle scenografie del cult del 1982, ma in realtà Scott, per sua stessa ammissione, si rifece alla nascente estetica cyberpunk dei fumetti pubblicati in America dalla rivista Heavy Metal e in Francia dall’analoga Metal Hurlant. Autori come il compianto Jean Giraud, in arte Moebius, ed Enki Bilal sono stati la principale fonte di ispirazione per definire i dettagli della tetra Los Angeles del 2019 immaginata da Scott, che si avvalse, tra gli altri, dei disegni dell’illustratore, nonché designer industriale, Syd Mead. La realtà multiculturale stratificata letteralmente su più livelli, il sottobosco di personaggi bizzarri che la abitano, dai punk agli Hare Krishna ai rivenditori biologici, sono tutti rinvenibili nei fumetti di quelle riviste, a cominciare dal mitico L’incal (la cui pubblicazione iniziò nel 1981, durante la lavorazione di Blade Runner), scritto da Jodorowsky e disegnato proprio da Giraud. Se pensiamo poi che Scott avrebbe dovuto girare Dune con la produzione di De Laurentiis (poi affidato a Lynch), e che il regista inglese aveva già saccheggiato la squadra di talenti messa insieme da Jodorowsky per il suo Dune, utilizzandola in Alien, il cerchio del destino sembra stringersi sempre più attorno alla definizione di un intero immaginario fantascientifico, che in quegli anni si imponeva grazie a un pugno di personalità artistiche geniali e anticipatrici.
Un film-mondo
Philip Dick morì purtroppo pochi mesi prima dell’uscita di Blade Runner nelle sale, anche se riuscì almeno a vedere alcune scene completate e ne rimase strabiliato. Era davvero qualcosa di molto vicino ai mondi che lui aveva immaginato. E Blade Runner è infatti una di quelle rare opere che possono fregiarsi della definizione di film-mondo. Non solo per il raffinato livello di dettaglio raggiunto, per l’enorme influenza culturale in tantissimi campi, per il colpo d’occhio estetico che mozza ancora oggi il fiato a ogni inquadratura, ma per la sensazione che quelle strade sudicie e bagnate di pioggia acida siano davvero vive e brulicanti di vita, che quei neon servano davvero a squarciare la notte infinita della Los Angeles del 2019. Il paradosso oggi è che quella data sia già passata da tre anni e che ci troviamo purtroppo a vivere nuove drammatiche situazioni, ma la visione di L.A. prospettata da Scott rimane assolutamente profetica e la ritroviamo in moltissime metropoli mondiali. Ma soprattutto i quesiti esistenziali con cui Blade Runner interroga la nostra coscienza, sulla durata della vita e sul suo senso, sull’importanza dell’empatia nei confronti dell’Altro da sé, sono ancora lì a interpellarci ad ogni nuova visione. E osiamo credere che di questo Philip Dick sarebbe molto soddisfatto.