Lo abbiamo conosciuto quando era appena atterrato su un pianeta sconosciuto. Un pianeta meglio noto come il letto del piccolo Andy di Toy Story. La prima entrata in scena dello space ranger Buzz Lightyear raccontava già tutto di lui: spirito fiero, eroe tutto d’un pezzo e senso del dovere rigidissimo. Peccato solo che quel giocattolo non pensava di essere un giocattolo ma un vero astronauta, prendendosi sempre troppo sul serio. Se per tutta la saga di Toy Story ci siamo chiesti “ma chi si crede di essere questo Buzz?”, adesso è arrivato il momento di cambiare dilemma. La domanda ora è: “Chi è Buzz?”. Nella nostra recensione di Lightyear – La vera storia di Buzz avremo a che fare con un bel cortocircuito tra realtà e finzione. Perché il nuovo film Pixar è lo stesso che nel 1995 fece innamorare il piccolo Andy del nostro space ranger tutto d’un pezzo. Insomma, gli occhi del bambino oggi sono diventati i nostri, ma con una piccola differenza: sono passati 27 anni. La missione è riuscita lo stesso?
Lightyear – La vera storia di Buzz
Genere: Animazione, commedia, fantascienza, avventura
Durata: 100 minuti
Uscita: 15 giugno 2022 (Cinema)
Cast: Chris Evans, Peter Sohn, James Brolin, Taika Waititi
La trama: oltre il fallimento
Lo spazio non è poi tanto diverso dal Far West: terreno di conquista per i ranger americani. Buzz Lightyear lo sa bene e si aggira nello spazio alla scoperta di nuovi mondi da esplorare o colonizzare, alla ricerca di altre forme di vita intelligenti. Durante una missione di perlustrazione al fianco della sua amica Alisha Hawthorne, il nostro fallisce una manovra di volo e rimane incastrato su un pianeta ostile assieme a una colonia di esseri umani. Quell’errore diventerà un’ossessione costante: da quel giorno Buzz Lightyear farà di tutto per tornare a casa. A qualsiasi costo.
Parte subito mettendo le cose in chiaro questo Lightyear: anche gli eroi falliscono. Anche gli idoli di un bambino conoscono il rammarico, il pentimento e soprattutto il sacrificio. Da questo insegnamento Angus MacLane (già regista de Alla ricerca di Dory) costruisce una prima mezz’ora davvero splendida. Un prologo evocativo, coinvolgente, che alza un’asticella che Buzz non riuscirà a toccare mai più per il resto del film. Quasi un mediometraggio nel lungometraggio (che in parte ci ha ricordato la storia di Ellie e Carl in Up) che ci regala una riflessione commovente sul valore del tempo e sugli affetti che ci sfuggono di mano troppo in fretta, mentre noi rimaniamo ingabbiati nella nostra routine.
Senza spazio
Troppo di corsa come procede Lightyear dopo questa prima parte ispiratissima. Un ritmo forsennato, scandito dalle tipiche tappe del cinema d’avventura (oggetto da recuperare, passaggio dal punto A al punto B con minacce nel mezzo) e una marea di gag non sempre riuscite. Il problema di Lightyear è che si adagia su un modello di cinema troppo simile al classico blockbuster americano degli ultimi vent’anni. Purtroppo anche l’alchimia tra i vari personaggi non è ben oliata, i tempi comici non spaccano il secondo e si fatica a entrare in empatia con le immagini che scorrono veloci sullo schermo. Immagini sostenute da un’animazione tecnicamente impressionante.
Coraggiosa la scelta di un’estetica fotorealistica e soprattutto la voglia di affidarsi a un immaginario molto chiuso, piccolo e spoglio a livello puramente artistico. Il pianeta in cui si muove il film è secco, vuoto, per nulla vario, sempre uguale a sé stesso. Il tutto letteralmente senza spazio, con pochissime sequenze ambientate dentro il nulla profondo. Una scelta che può sembrare pigra, volutamente “a risparmio”, ma che secondo noi rivela una dichiarazione di intenti ben precisa. Lightyear mostra il fianco di un film partorito in piena pandemia (senza vergognarsene mai), e che della pandemia incarna patemi, dilemmi e dinamiche. Cosa fare quando siamo costretti a vivere sotto una cupola? Accontentarsi o cercare l’avventura? Farci bastare quello che abbiamo o cercare qualcosa di nuovo? E soprattutto: siamo solo quello che facciamo o quello che abbiamo?
Dal basso verso l’altro
Ricordate gli occhi del bambino? Quelli che ci facevano vedere le cose dal basso verso l’alto. Quelli con cui Andy maneggiava Buzz e Woody durante le avventure immaginate nella sua stanzetta. Ecco, vedere Lightyear ci ha fatto venire un dubbio: cosa rimane a un bambino di 10 anni appena uscito dal cinema? Probabilmente la patina, la corazza, la confezione dell’eroe determinato che Lightyear scortica di continuo per aggiornare il mito dell’idolo americano che non deve chiedere mai e bastare a sé stesso.
Questo film quella confezione la apre, ma non rompe mai completamente il giocattolo per guardarci dentro. Senza mai toccare quelle vette introspettive e poetiche a cui la Pixar ci ha abituato negli anni (anche nei suoi presunti film minori), Lightyear punta la Luna e si ferma poco oltre il dito con un volo frenato a metà strada. Un volo durante il quale, diciamolo, quel panorama meraviglioso della prima mezz’ora vale il prezzo del biglietto. Un viaggio in cui il nostro Buzz ha capito che in ogni missione i veri eroi guardano sempre avanti e mai indietro (non è l’unico déjà vu con Top Gun: Maverick, fidatevi), e soprattutto non riescono a vincere stando da soli. Ma questo lo avevamo già capito nel 1995. Quando un bambino giocava nella sua stanza con uno space ranger al fianco di un cowboy, un dinosauro, un maialino, un cane di molla e una coppia di patate innamorate.
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La recensione in breve
Un viaggio che si ferma a metà strada. Così abbiamo definito il nuovo film Pixar nella nostra recensione di Lightyear - La vera storia di Buzz. Un'avventura che dopo un prologo straordinario si adagia sul classico blockbuster lontano dall'introspezione e dalla solita profondità dello studio.
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Voto ScreenWorld