Su Monster si è scritto e sentito di tutto, negli ultimi anni. La serie antologica di Netflix, ennesimo fenomeno popolare orchestrato da Ryan Murphy, ha dovuto fare i conti con accuse e dilemmi etici sin dalla sua prima stagione. Dopo un percorso che ha portato lo show a superare l’ombra di Jeffrey Dahmer, passando per l’ambiguità dei fratelli Menendez, lo showrunner ha passato il testimone al suo fido collaboratore Ian Brennan. Un tempismo quasi diabolico, dato che il protagonista del terzo capitolo è il serial killer per antonomasia. Ed Gein ha dominato la cultura popolare per oltre 75 anni, ma è anche stato (suo malgrado) l’ispirazione per artisti e cineasti, curiosi di scoprire il lato più oscuro della mente umana.

Un’ossessione che ha dato vita al true crime e che affascina ancora oggi. Murphy lo sa bene, per questo ha costruito il suo show come una danza macabra di corpi mutilati, terrori sussurrati e desideri inquietanti. Per allontanarsi dalle critiche e da certe accuse, Netflix ha deciso di muoversi sempre più indietro nel tempo – come dimostra la già annunciata quarta stagione. Una scelta che permette soprattutto di distaccarsi da un certo tipo di immaginario, ma che porta con sé un grosso rischio: con meno materiale a disposizione, l’unica soluzione è romanzare. Ed Gein prova così a sfatare il mito del mostro, partendo dal contesto per arrivare all’uomo. L’idea di distacco imposta dalla serie resta ambigua, ma l’approccio è decisamente quello giusto.

Brennan subisce il peso della propria autonomia, stravolgendo fin troppo il percorso introspettivo dello show, ma riesce a convincere più a fondo nella gestione del mostro. La storia di Ed Gein diventa così l’occasione perfetta per guardare all’America delle ombre sottili, alle ipocrisie di una società bigotta, ma soprattutto per riflettere sul valore del racconto in un mondo dove tutto è percezione.

Raccontare Ed Gein

Charlie Hunnam è Ed Gein nella terza stagione di Monster
Charlie Hunnam è Ed Gein nella terza stagione di Monster – ©Netflix

Non c’è dietrologia che possa riparare al passato. Non c’è narrazione che possa immaginare Gein come vittima di un mondo crudele. Brennan e Murphy ne sono pienamente consapevoli, ma trovare il giusto compromesso rischia di dar vita a un paradosso: serve interessarsi al protagonista, ma non condannarlo sarebbe un errore. Ogni storia che si rispetti, specialmente nei crime, parte da un principio fondamentale: non si ragiona per assoluti. Edward Theodore Gein è stato uno dei più efferati criminali della storia, ma la sua follia non è nata per caso. Spesso sono gli impulsi della famiglia o della società a generare i mostri più spietati. E questo caso, in particolare, è arrivato in un momento storico in cui il mondo cominciava a ruotare intorno allo storytelling. Raccontare qualcosa, se lo si fa bene, crea fascinazione. Inutile negarlo. Lo aveva capito l’autore Robert Bloch, ma lo aveva capito soprattutto Alfred Hitchcock.

La scelta di includere il maestro del brivido all’interno della serie era inevitabile: senza Gein e certe intuizioni dell’epoca, non esisterebbe l’horror per come lo conosciamo – da Psyco fino a Non aprite quella porta. Un incrocio che cambia le regole del terrore, facendo la storia, e che viene riproposto dalla coppia Brennan-Murphy con infinita passione cinefila. Questo Monster è decisamente il più citazionista: l’Ed Gein di Hunnam vive negli echi delle sue rappresentazioni e poi collassa su se stesso, disperato e distrutto da una realtà troppo complessa per viverla fino in fondo. Rifugiato nelle sue suggestioni, il killer diventa una creatura che vive oltre la sfera della critica, costretto in un limbo tra storia ed eccesso che troppo spesso smorza gli entusiasmi per una rappresentazione di questa portata.

Mostri allo scoperto

Un'immagine promozionale di Monster: la storia di Ed Gein
Un’immagine promozionale di Monster: la storia di Ed Gein – ©Netflix

La narrative di Ed Gein tiene conto dell’opinione pubblica, attingendo da più punti di vista differenti per esplorare simboli e criticità. Dalla percezione esteriore a quella interiore. Un intimismo che si fa quasi sfrenato, reso magnetico dalle performance del cast ma che nel concetto e nella messa in scena si fa decisamente eccessivo. Resta l’astuzia nel porre lo storytelling al centro dell’opera, con un dialogo sul senso della verità che affascina e stimola dall’inizio alla fine. Un contesto che punta tutto sull’impatto, perché in fondo vuole stupire, ma che spinge troppo dove potrebbe trovare maggiori sottigliezze e smorza quando potrebbe osare davvero.

Forse serve troppo coraggio per provare a sguazzare nell’abisso. Ciò che resta è un prodotto intrigante e altalenante, costruito con le giuste idee ma sviluppato al ribasso rispetto alle sue potenzialità. In fin dei conti, il senso di Monster: la storia di Ed Gein oscilla sempre sul mistero tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare. In questo, la discussa figura di Hitchcock diventa fondamentale come trait d’union tra il reale e la finzione: “lo spettatore ha scoperto un nuovo mostro: se stesso”. Sarebbe meraviglioso trovare maggior equilibrio in un’opera che intende portare in scena tematiche estremamente interessanti e perennemente attuali, ma come spesso capita a Ryan Murphy, guardare troppo avanti porta a perdersi ciò che ci sta intorno.

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Classe '94. Critico e copywriter di professione, creator per passione. Ha scritto e collaborato per diverse realtà di settore (FilmPost.it, Everyeye) con la speranza di raccontare il Cinema e la cultura pop per il resto della sua vita.