«This film uses only their memories»
Pochi autori nel recente passato hanno provato a intercettare il contemporaneo come Alex Garland, cercandolo attraverso il linguaggio dei generi e le domande sul valore delle immagini per arrivare alla verità, al reale. A un presente osservato da lontano, attraverso la lente di un tempo deformante e rivelatore. Se l’acclamato Civil War proiettava verso la distopia di un futuro imprecisato (ma, a guardarsi attorno, quanto realmente “futuro”?), Warfare torna indietro. Quelli raccontati sono ricordi, incubi vissuti in Iraq nel 2006 dall’ex Navy Seal Ray Mendoza, co-regista e sceneggiatore al fianco di Garland.
Dalla guerra civile in territorio statunitense, quindi, a quella militare in territorio iracheno. Dall’itinerario americano on the road, scandito dagli scatti, alla stasi dentro quattro mura, interrotta da proiettili e detriti. Warfare – Tempo di guerra sembra partire proprio da Civil War, dal caos violento come dai rapporti creati dall’unione. Come aggiunta, espansione, pur con una forma quasi opposta, più radicale. In anteprima al Taormina Film Festival, selezionato in concorso e vincitore del premio per la miglior regia. Da agosto in Italia con I Wonder Pictures.
Genere: Guerra, Drammatico
Durata: 95 minuti
Uscita: 21 Agosto 2025 (Cinema)
Cast: Joseph Quinn, Kit Connor, Will Poulter, Cosmo Jarvis
L’inferno in una stanza

È raro vedere opere come Warfare nella cinematografia bellica americana, nel bene e nel male. Quello di Garland e Mendoza è un film tutt’altro che ipertrofico, muscolare o glorioso. Un’opera segnata dalla compattezza organica di una narrazione ridotta all’osso – diversa, per certi versi, dall’eterogeneità diegetica del regista di Ex Machina – veicolata da uno sguardo chirurgico e freddo. Una ricerca quasi documentaristica dell’oggettività, della concretezza del ricordo, dell’autenticità. Un abisso apparentemente impersonale, pur fondato su qualcosa di vissuto, di strettamente personale, privato. Cede così il passo la spettacolarizzazione degli eventi, in un’operazione che è meno film e più ricostruzione, influenzata tanto dalle memorie sul campo quanto da una dimensione videoludica a là Call of Duty, dalla realtà virtuale e digitale.
Proiezione al centro del conflitto, immersione senza mediazioni, senza filtri. Non solo per rivivere quei giorni ma per percepirne gli odori, i rumori, i colori o la loro assenza. Inerzia performativa che ridimensiona il canone del cinema di guerra, che lavora sulle riflessioni e sull’immaginario di quel tipo di racconto come già fatto da Black Hawk Down prima e The Hurt Locker poi, enfatizzandone l’intimismo. In questo senso, Warfare pare più vicino al documentario del 2010 di Hetherington e Junger, Restrepo. Garland e Mendoza limitano le celebrazioni e il campo visivo, fanno cinema politico lasciandone però le implicazioni sullo sfondo, senza esclamazioni plateali, concentrandosi piuttosto sull’attesa, sulla sofferenza, mettendo più a fuoco i legami di un gruppo di uomini e meno l’onore o i doveri di un plotone di soldati.
Si risentirà della caratterizzazione del singolo – lo stesso ottimo cast lavora al meglio d’insieme, salvo poche eccezioni che riescono a isolarne l’intensità – o del sentimento empatico e di connessione nei confronti di uno specifico elemento. Parallelamente, però, è il team a svilupparsi coerentemente come personaggio a sé. Come unico corpo, multiforme ma al contempo compatto, coeso e denso.
Comunione nella privazione

Sembra un Garland inconsueto, più rigido nella forma e nell’esposizione. Ma è, forse, solo un’impressione: emerge ancora una volta uno sguardo, certo alimentato dall’esperienza di Mendoza e pur vincolato da uno script più limitante, abile nell’inquadrare la dimensione spaziale del conflitto, tanto quello armato quanto quello psicologico – anche quando, come in taluni casi, diventa difficile orientarsi. Coordinate fisiche, sociali, umane, lette, rilette e ridefinite in tempo (quasi) reale dalla lente diretta di chi ha esperito contemporaneamente l’orrore, la noia, la speranza.
È un film di testa Warfare, attento alla meticolosa resa estetica e sonora: straordinario, per l’appunto, il sound design di Glenn Freemantle, nella baraonda dello scontro e persino nella quiete della pausa. Molto ragionato al punto da lasciare poco spazio ad altro. Perché altro non serve, altro non c’è. Come Civil War – che oltre al testo politico, sociale, ideologico, era grande intrattenimento vicino al gusto più mainstream – ma epurato degli orpelli e degli inevitabili artifici della struttura drammaturgica di finzione. Questa operazione si assume l’onere di essere testimonianza vera, reportage bellico, anche se questo vuol dire scarnificare dialoghi e azioni. Approccio essenziale, viscerale, dalle intenzioni nobili – oltre che il ricordo esorcizzante, il pensiero per i compagni feriti – che, prima del centratissimo tour de force finale, sovente fa però sentire il peso di un ritmo compassato, specie nelle sezioni centrali dal tono monocorde.
Non c’è epica, patriottismo, bandiera americana da sventolare in questo limbo, in questo circoscritto luogo filmico metafisico, quasi carpenteriano, nel quale la narrazione si può sospendere ma dal quale può pure esplodere. Garland e Mendoza sovvertono i cliché del war movie a stelle e strisce, rimpiccioliscono ciò che, tendenzialmente, è massimizzato, per concentrarsi sull’uomo. Un anti-viaggio, fagocitato dall’abisso di una guerra che lascia le sue inesorabili e indelebili tracce su territori e individui.
Conclusioni
La guerra, la sofferenza, il caos come stimolo immersivo. Alex Garland e Ray Mendoza scelgono un approccio quasi documentaristico, mutuando dalla dimensione videoludica per riportare alla luce il ricordo, restituendo con fedeltà il ruolo dell'uomo (e meno del soldato) nella Storia. Perde un po' di smalto prima del finale, ma Warfare - Tempo di guerra resta un'esperienza stimolante proprio nella sua radicalità e nella distanza dalle abitudini del war movie statunitense.
Pro
- Il suono di Glenn Freemantle: vivo, avvolgente, terrificante
- Garland e Mendoza non parlano di superuomini, svincolano il soldato dalla visione eroica, così da far emergere la fragilità dell'uomo davanti al conflitto
Contro
- Una sezione centrale più debole, nella quale la freddezza dello sguardo oggettivo rischia di allentare la tensione
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Voto ScreenWorld