C’è sempre qualcosa di sfuggente nel cinema sudamericano (e messicano in particolare): non si tratta soltanto di un mix di sensazioni e vissuti particolari, ma di un punto di vista e una sensibilità che sfuggono allo sguardo dell’industria che conta. Quella capacità di guardare oltre le forme, plasmando sostanze, è quella che ha permesso alla generazione dei Cuarón, dei Del Toro e degli Iñárritu di conquistare la scena internazionale. Quando gli autori messicani posano il proprio sguardo su chi li sovrasta (in tutto e per tutto), le meraviglie sono dietro l’angolo. Sulla scia di chi ha tracciato percorsi insperati, il cinema messicano di oggi ha piena libertà di sperimentare, persino di distruggere i suoi stessi stilemi.
Alonso Ruizpalacios si inserisce in questa corrente: un messicano del Cinema più spinto, quasi prepotente nella sua verve caotica e traboccante di passione. Un autore che vive di quell’estasi delirante di pura essenza filmica, che dall’arte trae ispirazione e all’arte si affida per raggiungere il cuore di chi osserva. Il suo primo film in lingua inglese segue i passi dei grandi conterranei senza voler però ricalcarne le orme: La Cocina (tradotto in Aragoste a Manhattan) è un’opera “piccola” che spera di creare scompiglio all’ombra dei colossi – e che nel suo caotico delirio riesce a farlo davvero. La pellicola, in sala per Teodora Film dal 5 giugno, si inserisce come una scheggia impazzita nelle produzioni a tema culinario per raccontare vite, speranze e dolori di chi si trova in bilico tra sogno e oblio.
C’è una New York in bianco e nero che potrebbe richiamare certi istinti alleniani, ma c’è soprattutto un’ispirazione teatrale (dall’omonima pièce di Arnold Wesker): il microcosmo che si fa macro, allegoria e sineddoche perpetua di un mondo di ultimi, ma anche di un incontro/scontro tra lingue, corpi e amori che si intrecciano nel tritacarne della Grande Mela.
Genere: Drammatico
Durata: 139 minuti
Uscita: 5 Giugno 2025 (Cinema)
Cast: Raúl Briones, Rooney Mara
Il mondo in cucina

In una Manhattan che non risparmia nessuno, La Cocina stabilisce la sua impronta sin dalle prime battute. La camera si muove forsennatamente cercando di star dietro ai disgraziati che lavorano al The Grill, con uno stile che cattura e disturba al tempo stesso. Difficile immaginare che pochi metri quadrati possano contenere tanta follia (specialmente in un periodo in cui le variazioni sul tema sembrano sprecarsi), eppure Ruizpalacios trova un modo originale per legare il suo sentire a una cronaca urbana (tutta americana) di vuoti umani.
Se non ci fossero tanti dialoghi, si potrebbe quasi accostare la cucina di Aragoste a Manhattan a un campo di battaglia tipico dei grandi war movies: un labirinto di corpi sofferenti che si alternano sotto gli ordini dei superiori, correndo a perdifiato nel tentativo di salvarsi. Il film è tutto lì, tra l’azione estenuante e i dialoghi dei personaggi, con il regista che sfrutta una coppia di individui (interpretati magistralmente da Raúl Briones e Rooney Mara) per raccontare il dolore di chi è stato sedotto e abbandonato dalla speranza. Quando si entra ne La Cocina si viene travolti da ogni parte, tanto dalla maestria visiva quanto dal dedalo di storie intrecciate che danno contesto all’opera. I lavoratori del The Grill vengono da ogni dove, parlano lingue diverse, ma sono tutti vittime del sogno americano – un sogno che li ha soltanto illusi e umiliati.
Il messaggio politico è evidente – a tratti crudissimo – ma Ruizpalacios cuce intorno alla sua critica toppe di vibrante empatia: in questo gioco di sopravvivenza oltre l’utopia c’è soprattutto il tentativo di creare un vero linguaggio universale, un coro a più voci che sappia urlare la propria affermazione. Così una cucina come tante si fa universo, casa di esperienze e vissuti che sovrastano persino gli schiamazzi con il semplice bisogno di esistere.
C’era una volta l’America

Lo stile di Ruizpalacios è travolgente per sua stessa natura, insofferente agli schemi ma quanto mai attento a preservare la sua delicatezza. Sulla poesia degli immigrati si regge l’epopea dell’America che non si vede, quella che subisce e che trova comunque la forza di amare. Nel suo fragile equilibrio tra orrore e meraviglia, Aragoste a Manhattan stupisce soprattutto perché trova l’umanità più pura in un sogno febbrile, nel continuo contrasto tra la realtà più opprimente e un delirio sempre più astratto. Esagera e deraglia, soprattutto nel finale, ma quella sensazione purissima è talmente speciale da persistere, dando vita e coscienza a un groviglio di stimoli.
La Cocina spinge lo sguardo verso un’America tradita da speranze malriposte, spaccata tra due mondi mai davvero compatibili. Non servirebbero tanti virtuosismi per far emergere queste metafore, ma Ruizpalacios trova il suo personalissimo modo di emergere oltre gli eccessi, raccontando un’agrodolce poetica delle distanze. Divari tra mondi lontani, che spesso faticano a capirsi – come quello dei personaggi e di chi osserva. Si torna sempre agli sguardi, a quella sensibilità che ha cambiato una nazione e che qui si fa dirompente sotto nuove forme. Forse il pregio più grande di un’opera che punta a farsi arte e innovazione sta proprio nella sua capacità di raccontare tanto con poco: un mondo in una cucina, persino in una vasca, a contenere le storie di aragoste in caduta libera che lottano disperatamente per sfuggire a un destino beffardo.
Conclusioni
Aragoste a Manhattan è un’opera particolarissima, tanto stravagante e creativa quanto potenzialmente respingente. Alonso Ruizpalacios scrive e dirige un film ammaliante, che travolge con la sua messa in scena e tenta di catturare con il suo messaggio potente. Un risultato davvero notevole, al netto di alcuni eccessi e virtuosismi inappropriati, che afferma con decisione l'impronta stilistica di un autore da tenere assolutamente d’occhio.
Pro
- L'interpretazione del protagonista è sensazionale
- La regia di Ruizpalacios è potentissima ed evidenzia una cifra stilistica notevole
- Lo stile visivo della pellicola lascia a bocca aperta e cattura dall’inizio alla fine
Contro
- L’ambizione del regista rischia a tratti di soffocare il racconto con una verbosità che potrebbe infastidire diversi spettatori
- Il film è dichiaratamente eccessivo, ma non tutte le scelte funzionano a dovere
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Voto ScreenWorld