Cosa spinge uno studio cinematografico hollywoodiano ad aspettare 9 anni per far uscire il seguito di un film di successo discreto? Se non sei Avatar o un altro marchio entrato nel cuore del pubblico non ti puoi permettere 12 anni di iato, perché un periodo di due lustri è troppo per chiedere al pubblico di ricordarsi di te e troppo poco per vedere se sei un fenomeno degno di revival. E infatti The Accountant 2, costato il doppio del primo, non sta andando come si doveva, hanno lasciato che il ferro si freddasse prima di riprendere a batterlo, con l’idea anche di un terzo film.
Dubbi produttivi e finanziari a parte, ha senso vedere il secondo episodio delle avventure dedicate al contabile autistico, implacabile con i numeri, con le botte e i proiettili Christian Wolff, che dà una mano alla malavita a pulirsi i conti, ma poi aiuta anche l’FBI a sconfiggere il male (senza una percettibile linea di discrimine)? Forse.
E se Rain Man fosse un film d’azione?

Il regista è sempre Gavin O’Connor, lo sceneggiatore è sempre Bill Dubuque, il protagonista è sempre Ben Affleck in versione palestra e monotonia del volto: al suo fianco, torna Jon Bernthal che interpreta il fratello ritrovato e riperduto di Christian per dargli un mano nella risoluzione di un caso che parte dalla morte di una persona in qualche modo cara al protagonista e arriverà al traffico di esseri umani lungo il confine tra USA e Messico.
Un canovaccio da B-Movie, che sembra anche strizzare l’occhio all’agenda politica dell’amministrazione Trump, e che sembra costruito per apparire un remake di Rain Man con emuli di Steven Seagal e Bruce Willis al posto di Dustin Hoffman e Tom Cruise. Per dare quest’impressione, sceneggiatore e regista si aprono molto alla commedia, usando il disturbo di Christian come materiale per gag, come quasi sempre Hollywood ha fatto con divergenze e diversità (riuscita quella dello speed dating iniziale, con Affleck che scherza sulla sua espressività), e soprattutto usando un Bernthal parecchio in forma, che ruba la scena nei duetti e non solo.
A caccia di risate, prima che d’avventure

The Accountant 2 cerca quindi una dimensione diversa sia nel racconto sia nel rapporto con i suoi spettatori, sperando soprattutto di conquistare un pubblico più trasversale: ci riesce giocando al ribasso, limitando le ambizioni, puntando sugli elementi più facili, ma facendoli risaltare al meglio, grazie alla professionalità di O’Connor e al lavoro di David Conk ai combattimenti e Vlad Rimberg al design delle calibrate sequenze d’azione, che ovviamente esplodono nel polveroso finale tra sparatorie, corpo a corpo e inseguimenti coordinati da Fernando Chien.
Il grado circense quindi di questo seguito è abbastanza moderato, ma ha una buona fattura, soprattutto perché alla produzione Amazon/MGM interessa ampliare le basi, rilanciare un possibile franchise su sui si era accumulata un po’ di polvere. E per fare questo, forse, le risate funzionano meglio delle acrobazie.