Con l’attesa crescente per l’uscita della seconda stagione della serie TV HBO, The Last of Us torna al centro dell’attenzione. Ma prima ancora del suo successo sul piccolo schermo (è stata già confermata una terza stagione), questa storia ha segnato un punto di svolta nell’industria videoludica. Con The Last of Us Parte II, Naughty Dog ha ridefinito i contorni di ciò che intendiamo per ‘videogame’. La narrazione profonda, l’estetica cinematografica e l’impiego di tecnologie avanzate hanno trasformato l’esperienza ludica in qualcosa che assomiglia sempre di più a un film interattivo. È davvero ancora corretto parlare di videogioco? O siamo davanti a un nuovo linguaggio audiovisivo?

Il confine tra cinema e videogioco non è più netto come un tempo: attori in carne e ossa prestano volto e voce a personaggi digitali tramite motion capture, la regia e il montaggio seguono codici tipici della narrazione filmica, e la musica diventa colonna sonora emotiva al pari di una pellicola. I giocatori si trasformano in spettatori attivi, chiamati a partecipare a storie dense di significato, ma spesso guidate con mano ferma dagli autori. Prima del gioco di Neil Druckmann, titoli come Uncharted, Metal Gear Solid, Death Stranding, così come lo stesso The Last of Us Parte Uno avevano già esplorato la fusione tra cinema e videogioco, sperimentando forme narrative complesse e regie ispirate al linguaggio cinematografico. Ma è proprio The Last of Us Parte II a rappresentare al meglio il simbolo di un’evoluzione che sta ridefinendo entrambi i mondi.

Narrazione 2.0

The Last of Us Parte I
Ellie e Joel in una scena di The Last of Us Parte I, fonte: Naughty Dog

Quando nel 2013 uscì il primo The Last of Us, molti furono colpiti dalla potenza emotiva della sua apertura: un padre, Joel, che cerca di salvare la figlia durante un’epidemia globale. La scena si conclude con un climax forte e pervasivo, accompagnato da una regia, un montaggio e una colonna sonora che non avrebbero sfigurato in una sala cinematografica. Quell’incipit, lungo circa venti minuti, fu il primo segnale chiaro di un cambio di paradigma. Un videogioco metteva da parte l’immediatezza del gameplay per puntare tutto su coinvolgimento narrativo, sull’empatia e sulla qualità visiva. Naughty Dog, già nota per la serie Uncharted, con The Last of Us non solo ha riscosso un enorme successo commerciale e critico, ma ha tracciato un solco profondo che altri titoli (come il God of War del 2018) avrebbero seguito. La narrazione si sviluppava lungo le stagioni, i personaggi crescevano, cambiavano, sbagliavano, e il giocatore diventava spettatore e protagonista al tempo stesso.

Ma è con The Last of Us Parte II, pubblicato nel 2020 dopo sei anni di sviluppo e con un budget da circa 220 milioni di dollari, che il confine tra cinema e videogioco si fa ancora più sottile. E i risultati economici non sono stati da meno. 4 milioni di copie vendute nella prima settimana (diventando l’esclusiva PlayStation 4 con più copie vendute nella prima settimana, battendo quindi Marvel’s Spider-Man e God of War) per un incasso potenziale che supera i 240 milioni di dollari. La seconda parte della saga introduce una narrazione più oscura e complessa, con tematiche forti come la vendetta, il dolore e la perdita. Il giocatore si ritrova spesso a dover compiere azioni con cui può non essere d’accordo, generando un conflitto interiore raro nei videogiochi. In questo senso, The Last of Us Parte II sfida la concezione tradizionale di ‘interattività’. Sebbene il giocatore controlli i personaggi, molte scelte narrative sono già definite, dando l’impressione di assistere a un film in cui si può solo recitare, non dirigere.

Il gameplay cede il passo alla storia

The Last of Us Parte II
Ellie in una scena di The Last of Us Parte II, fonte: Naughty Dog

Uno degli elementi più innovativi è l’utilizzo della motion capture che, seppur sfruttata da tempo immemore in ambito videoludico, con l’opera di Naughty Dog giunge a piena maturazione. Gli attori, veri interpreti con esperienza cinematografica, indossano tute speciali che traducono ogni espressione, ogni gesto, ogni inflessione vocale in dati digitali. Questa tecnologia, ormai diffusa anche nel cinema per personaggi come Thanos dell’universo Marvel, affonda le sue radici proprio nel mondo dei videogiochi che venne poi adottata da registi come Peter Jackson per dare vita a Gollum ne Il Signore degli Anelli. È emblematico come la tecnologia sia partita dai giochi per arrivare al cinema, e oggi ritorni nel videogioco con nuova forza espressiva. Il legame tra tecnologia ed emozione si fa evidente. Quanto più un personaggio appare realistico nei gesti e nel volto, tanto più il giocatore riesce a empatizzare con lui. Il risultato è un’esperienza immersiva in cui le barriere tra spettatore e protagonista si assottigliano drasticamente.

Il racconto videoludico ha quindi mutuato le strategie del cinema non solo visivamente, ma anche narrativamente. Come i film, The Last of Us Parte II è scritto con l’intenzione di far provare empatia, di costruire drammaturgia. La recitazione digitale non è più un espediente grafico, ma uno strumento espressivo autentico. Il tutto è sostenuto dalla regia precisa di Neil Druckmann che dosa ritmo, inquadrature e montaggio. Persino le scene interattive sono progettate per non spezzare il flusso narrativo: si parla di sequenze scriptate e quick-time events, azioni rapide su comando, momenti in cui al giocatore viene chiesto solo di premere un tasto per proseguire, lasciando la regia saldamente nelle mani degli autori.

Tuttavia, questa scelta ha suscitato anche critiche. Alcuni giocatori si sono sentiti privati della libertà, costretti a partecipare a una spirale di violenza che non avevano scelto. Non è certo la prima volta che ci si approcciava a un videogioco in cui bisognava seguire una storia prestabilita dagli sviluppatori, ma mai come in questo momento assume toni realistici ed evocativi, trasformando l’esperienza in qualcosa di nuovo. La tensione tra narrazione lineare e interattività resta una questione aperta. Ma è proprio questo il punto. The Last of Us Parte II non è solo un videogioco, è un’opera narrativa con una visione forte, autoriale, che ha scelto di sacrificare parte della libertà del giocatore per raccontare una storia coerente, potente, memorabile.

La serie: cosa ha funzionato e cosa no

The Last of Us HBO
Joel (Pedro Pascal) e Ellie (Bella Ramsey) in una scena di The Last of Us, fonte: HBO

Al momento del suo annuncio nel 2020, l’adattamento televisivo di The Last of Us aveva suscitato qualche perplessità: in molti ritenevano superfluo trasporre in serie un’opera che già nel suo formato originale possedeva un’anima fortemente cinematografica. Tant’è che per alcuni che avevano già vissuto l’esperienza originale su console, la serie televisiva non ha avuto lo stesso impatto travolgente, sebbene bisogna dire che a lamentarsene siano stati una minoranza di fan. Ma è fondamentale ricordare che ci si muove all’interno di due media differenti: la serie televisiva, pur adattando fedelmente eventi e personaggi, si muove secondo dinamiche proprie, in cui l’immedesimazione non può poggiarsi sull’interattività, ma si costruisce attraverso la regia, la recitazione, il montaggio e la scrittura seriale. Nonostante queste differenze strutturali, lo show targato HBO è stato accolto con entusiasmo da pubblico e critica, compresi molti fan di lunga data del videogioco.

È considerata una delle migliori trasposizioni videoludiche di sempre, forte di una produzione curatissima, di interpretazioni convincenti e di una narrazione che, pur svelando eventi già conosciuti dai giocatori, riesce a emozionare grazie a una messa in scena curata e coinvolgente. I numerosi riconoscimenti ottenuti, tra cui otto Primetime Emmy Awards su un totale di ventiquattro nominations, ne sono la conferma più tangibile. Tuttavia, per quanto l’adattamento possa eccellere, manca inevitabilmente un elemento fondamentale: la componente ludica. L’interazione, la possibilità di agire nel mondo di gioco, di plasmare il ritmo dell’esperienza, è ciò che rende il videogioco un medium unico e completamente differente da tutti gli altri. Ed è proprio questa caratteristica a segnare il confine, per quanto sottile, tra cinema e videogioco. Un confine che la serie di The Last of Us ha saputo avvicinare come poche altre opere prima d’ora, ma che, almeno dal lato della settima arte, resterà sempre in qualche misura invalicabile.

Parte II, oltre il confine

The Last of Us
Ellie in una scena di The Last of Us Parte II, fonte: Naughty Dog

In definitiva, The Last of Us Parte II non è solo un gioco: è un prodotto culturale che sfrutta tecniche cinematografiche, recitazione reale, storytelling complesso e tecnologie avanzate per creare un’esperienza unica. È il simbolo di un’industria che non guarda più al cinema come a un rivale, ma come a un alleato. E ora che la seconda stagione della serie HBO, in uscita nelle prossime settimane, si prepara a portare sullo schermo gli eventi del secondo capitolo videoludico, sarà interessante vedere in che modo gli autori affronteranno le ancora più complesse sfide narrative ed emotive che li attendono.

Per continuare a convincere, e magari superarsi, sarà necessario osare, sperimentare, trovare nuovi modi per colmare quella distanza di coinvolgimento che separa spettatore e giocatore. La domanda rimane aperta: fino a che punto un videogioco può, o deve, somigliare a un film?

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Nato il 10 Giugno 2001 a Cesena, dal 2023 Nicolò Vandi collabora con CinemaSerieTv.it e ScreenWorld.it. Amante della settima arte sin da quando era un bambino, studia al DAMS di Bologna e sogna di lavorare nel mondo del Cinema.