Le storie da dentro o fuori hanno sempre un sapore particolare. Per un’anima come quella di Gilles Rocca, che per tutta la vita ha oscillato tra il calcio e il cinema, diventare il cuore (non a caso) de L’Ultima Sfida dev’essere stato ancor più speciale. L’attore torna sul grande schermo come protagonista del nuovo film di Antonio Silvestre, un’opera che racconta la passione di un uomo attraverso lo sport, ma che soprattutto si approccia allo spettatore come un dialogo sul valore e sul senso profondo delle ambizioni.

Ne L’Ultima Sfida vita e finzione si mescolano di continuo, a partire dal cast per arrivare ai risvolti (a tratti anche oscuri) della narrazione. Aperto, spontaneo e carico di emozioni, Rocca ha raccontato la sua esperienza (di vita vissuta, oltre che dal set) ai microfoni di Screenworld.

Comincio dicendoti che per chi ti conosce dall’esterno, l’idea di vederti quasi in un what if fa un certo effetto. Quanto ci hai messo a entrare in contatto con Massimo e con questa storia?

Io De Core me lo sono tatuato sulla gamba (ride, ndr)! Me lo sono tatuato sulla gamba infortunata, quella che ha messo fine ai miei sogni da calciatore. Quando mi hanno proposto di fare questo film non c’ho pensato neanche un minuto, ho detto subito di sì. Tra l’altro dovevo iniziare un altro film in quel periodo. Avrei retto volentieri entrambi, ma ho sentito il bisogno di immergermi nella vita di Massimo De Core, quindi ho rinunciato all’altro film e mi sono messo subito a studiare. Ogni volta che leggevo e andavo avanti sul copione trovavo tante delle cose che avrei potuto vivere, ma anche tante cose che ho vissuto.

C’è una parte dei ricordi che mi riguarda da vicino, poi c’è l’attualità. Un presente come quello di Massimo De Core è qualcosa che sognavo sin da bambino. Alla fine è stato come affacciarsi dalla finestra, pensando a come sarebbe potuta andare la mia carriera se non mi fossi fatto male. È stato molto bello, ma anche molto emozionante.

In De Core vediamo un calciatore prossimo al ritiro, ma a prevalere è soprattutto la prospettiva di un uomo che avverte il peso della bandiera, le stimmate dell’eroe popolare. Tu come lo senti Massimo, oggi che non lo interpreti più? E come lo descriveresti a chi non ha ancora visto il film?

Lo descriverei come una persona estremamente umana, estremamente sensibile. Mi sono portato dentro un certo tipo di sentimento: il film si ambienta in una settimana, ma il mood di Massimo è ricorrente. Non lo vedi quasi mai sorridere e oltre quell’espressione c’è spazio per tante cose. Questo dualismo tra la partita della vita e l’incertezza del futuro è particolare. Non c’è il divismo dei grandi campioni nel pieno delle loro carriere, ma una malinconia e una genuinità profondamente umane. Mi sono ispirato molto a quello che ho visto di Totti, ma forse più a quello che ho visto di De Rossi. Daniele è stato un mio avversario per quattro anni: io giocavo nella Lazio, lui nella Roma; ci siamo affrontati tante volte e siamo anche coetanei.

Per certi versi, De Rossi è stato il termometro della mia vita: abbiamo iniziato insieme, entrambi classe ’83, entrambi tifosi della Roma (anche se stavo dall’altra parte). Quando Daniele ha smesso di giocare è come se avessi smesso anch’io. Questo parallelismo tra ciò che avrei voluto fare e l’umanità che ho cercato di esprimere attraverso Massimo è stato fondamentale: in campo Daniele era uno semplice, e in questo senso De Core lo ricorda.

Gilles Rocca L'Ultima Sfida
Gilles Rocca ne L’Ultima Sfida – ©Amaranta Frame

Questa territorialità si sente molto nel calcio. Come avete lavorato insieme al regista per creare questo legame quasi simbiotico tra ambiente e personaggio?

Mi sono immedesimato subito. Come se quella fosse veramente casa mia, come se avessi vissuto tutta la vita con quella squadra, con quella gente, con quel pubblico. E nella mia carriera attoriale (anche televisiva) alcune di quelle sensazioni emergono sempre. Quando la gente ti ferma per strada e sa che hai vinto Ballando, che hai fatto l’isola, ti conoscono come se ti conoscessero, ti salutano come se ti conoscessero. Ho imparato a parlare con le persone sapendo che non mi conoscono, che io non conosco loro. Lavorarci attraverso Massimo De Core è stato più semplice di quello che magari si possa pensare.

Poi Antonio (Silvestre, il regista, ndr) è stato bravo a spiegarmi molto bene il personaggio. Quando l’ha scritto non aveva me fra i suoi pensieri, ma quando ci siamo incontrati è scattata la scintilla. Gli si è accesa una lampadina. Ha chiamato Vincenzo De Michele (che interpreta il commissario), sapendo che eravamo molto amici, e gli ha chiesto se avrei potuto accettare questo ruolo secondo lui. Sapeva che per me il calcio è stato dolore e passione, quindi ha saputo lavorare bene dall’interno. Quando qualcosa è scritto così bene, ti dà la possibilità di fare grandi cose – di recitare, interpretare nel miglior modo possibile.

L’Ultima Sfida ha il sapore e l’urgenza di quegli “ora o mai più” che piacciono tanto al Cinema. Qual è l’aspetto che ti ha messo più paura? E quello che ti ha invece coinvolto di più?

Domanda molto bella. Sicuramente l’aspetto che mi ha coinvolto di più è stato “interpretare” quella che sarebbe potuta essere la mia vita. Quell’idea mi ha ispirato dal momento in cui ho letto il copione, perché rientra in quelle storie da “vivere” che permettono a chi fa il mio mestiere di essere ogni giorno una persona diversa. Ma oltre al gioco dell’attore c’era anche una parabola di vita vera, di vita personale che è stata un valore aggiunto. Per quanto fosse la cosa più bella, forse è stata anche la cosa più difficile. Avevo messo da parte quel pezzo della mia vita: ho smesso di giocare a 20, 21 anni e per tanto tempo non ho più toccato un pallone. La prima volta che l’ho fatto è stato quando sono entrato nella nazionale italiana attori, con cui facciamo beneficienza da molti anni.

Per più di sette anni il pugilato è stato il mio unico sport, poi ricordo che al primo allenamento con la nazionale ci ritrovammo al Salaria Sport Village, l’ex Banco di Roma, dove ho fatto il mio primo allenamento con la Lazio. Me ne sto ricordando adesso, questa cosa non l’ho raccontata a nessuno. Questa magia dei ritorni, tra il vestire una nuova maglia e sentire di nuovo l’appartenenza a una squadra, è qualcosa di incredibile. Certo, fa strano che lì in mezzo sia la persona che parla meno di calcio (ride, ndr). Saranno anni che non seguo più assiduamente: dover fare finalmente i conti con quello che per me è stato un lutto, sotto certi aspetti, ha fatto la differenza.

Hai smesso di seguire assiduamente il calcio soltanto per questa repulsione o perché, come accenna il film, avverti il peso dell’evoluzione di questo sport?

Entrambe le cose. Prima era una reazione dovuta all’infortunio, ma la recitazione mi ha aiutato tantissimo e la passione mi ha permesso di colmare dei vuoti profondi, delle ferite che mi hanno reso più forte. Per certi versi sono grato di quel che mi è successo, anche perché trovo che il calcio di oggi sia un business che corre troppo veloce. Per noi che campiamo di cinema, l’attesa è la cosa più importante e più difficile. Con decine di partite nel giro di pochi giorni non riesci più a goderti l’attesa.

Ogni film è fatto di attese, di ansie e risposte. Nel calcio moderno, invece, hai sempre qualcosa da guardare. Preferisco le partite di terza categoria, forse c’è più genuinità. Poi mi piace guardare certi spettacoli, è ovvio: Real Madrid, Barcellona, la Premier League soprattutto. C’è più gioco, si cerca di mantenere la purezza dello sport e il fascino di quello spettacolo, per dirla in parole povere.

Gilles Rocca e Antonio Silvestre sul set de L'Ultima Sfida
Gilles Rocca e Antonio Silvestre sul set de L’Ultima Sfida – ©Amaranta Frame

Quando qualcuno guarda dall’esterno una storia come quella de L’Ultima Sfida potrebbe facilmente sottovalutarla. Tu sei stato anche dietro la macchina da presa e sai cosa vuol dire raccontare storie “vere”. Cosa ti ha davvero colpito di questo film?

A me ha colpito molto il il racconto dei personaggi. Secondo me Antonio ha centrato le loro caratteristiche: non ci sono macchiette, ma un cast di grandi attori che trasmette una grandissima umanità. Tutti quelli che hanno partecipato al film sono stati scritti realisticamente: si percepisce la loro passione e questo permette di affezionarsi un po’ a tutti i personaggi. Al di là dell’essere tifosi o meno, appassionati o meno, il calcio è contesto. Di calcio, effettivamente, si parla tantissimo ma si vede poco.

Quello che resta e importa davvero è il risultato della storia. Potresti anche cambiare lo sport, il mood, ma avresti comunque avere la stessa storia. A emergere è sempre l’umanità di questa storia. Umana come Antonio, che ha messo tutto se stesso in questo film.

Ci sono progetti futuri legati non solo alla promozione del film, ma anche qualcosa che ti andrebbe di condividere?

Recentemente mi hanno chiesto di scrivere e di dirigere uno spot sul sociale contro la violenza di genere. Le protagoniste saranno sei ragazze, sei donne, che verranno affiancate da campioni dello sport olimpico per affrontare una minaccia metaforica, ma quanto mai reale nella nostra società.

Nel frattempo ci godremo la promozione e la presentazione de L’Ultima Sfida, che dopo la presentazione al BIFest sarà in tutte le sale a partire dal 3 aprile!

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Classe '94. Critico e copywriter di professione, creator per passione. Ha scritto e collaborato per diverse realtà di settore (FilmPost.it, Everyeye) con la speranza di raccontare il Cinema e la cultura pop per il resto della sua vita.