Se Opus fosse uscito un decennio fa, sarebbe stato più facile apprezzarlo per la sua profondità relativa alla costruzione di una discussione sul culto delle celebrità (e la sua relazione con il comportamento di una setta) e per aver capovolto i topoi del genere. Purtroppo, esce alla fine di un’ondata di film dell’orrore che seguono tutti la stessa struttura di base: una persona ricca ed eccentrica e/o una celebrità invitano alcuni/e eletti/e a unirsi a loro in un luogo remoto in cui rimangono vittima dei loro piani segreti e omicidi.

Glass Onion, Blink Twice, un po’ di Midsommar e soprattutto The Menu sono tutti esempi recenti che Opus ricorda. Certo, somigliare ad altri prodotti che fanno parte di una stessa tendenza o del medesimo sottogenere cinematografico non squalifica automaticamente un film, ma il problema è che Opus risulta superficiale e poco avvincente.

Opus – Venera la tua stella
Genere: Horror, Drammatico
Durata: 103 minuti
Uscita: 27 Marzo 2025 (Cinema)
Regia: Mark Anthony Green
Cast: Ayo Edebiri, John Malkovich

Uno spettacolo vano

Una scena di Opus – © A24

Anche se accenna a una serie di idee interessanti riguardanti i pericoli dell’adorazione delle celebrità (e la crescente scarsità di voci critiche indipendenti necessarie per mantenere la nostra onestà culturale e intellettuale), Opus di Mark Anthony Green è un film poco riuscito che finisce per diventare proprio ciò di cui si suppone sia così preoccupato: uno spettacolo pop vano. D’accordo, può risultare divertente, in parte grazie al puro carisma della star Ayo Edebiri; ma parliamo di un film la cui battuta finale arriva a spese del pubblico che inganna nella ricerca di una profondità non pervenuta.

La storia inizia con una giovane giornalista di nome Ariel (Edebiri), che — nonostante la sua passione e bravura — viene svalutata dai poteri forti della rivista musicale di lusso nella quale lavora. Il suo capo egocentrico Stan, prende i suoi buoni pitch e li assegna ad altri scrittori senior, lasciandola demoralizzata in un settore a cui ha dedicato diversi anni della sua vita. In una delle prime inquadrature, la macchina da presa si allontana lentamente da Ariel mentre lei vaga per le strade della città, riducendola a una vagabonda anonima; è un momento efficace e visivamente dinamico, che esprime un senso dolorosamente riconoscibile di essere una piccola parte dimenticata di un grande mondo che si preoccupa poco di te.

Un Willy Wonka in tonaca

Una scena di Opus – © A24

La pop star invece è Alfred Moretti, che si è ritirato dall’attenzione pubblica decenni fa e ora è tornato con quello che sostiene sarà il miglior album mai realizzato. In stile Willy Wonka, invita alcuni eletti nel suo complesso nel deserto per una stravagante festa di ascolto: un’influencer (Stephanie Suganami), una paparazza (Melissa Chambers), una rock star diventata podcaster (Mark Sivertsen), una conduttrice di uno show televisivo (Juliette Lewis), un redattore di una rivista (Murray Bartlett) e, con un colpo di scena, la sua scrittrice junior e inesperta Ariel (Ayo Edebiri). Moretti si è circondato di una comunità simile a una setta di yes men in toga che credono in insegnamenti che danno priorità alla creatività sopra ogni altra cosa, trasformando il loro idolo in una specie di dio.

Come molte delle final girl prima di lei, Ariel è convinta che ci sia qualcosa di più sinistro in gioco. In una prima cena di banchetto tra discepole e critiche, Moretti sposa il suo desiderio di “garantire la protezione della creatività”. Tutto ha a che fare con ciò che Moretti alla fine rivela essere la sua convinzione della supremazia dell’emisfero destro: che le persone creative, al contrario di quelle intelligenti o forti, dovrebbero essere coloro che detengono il controllo del pianeta. Il mondo è stato tradito dagli esponenti dell’Ivy League, quindi è logico che i prossimi in linea per il potere siano coloro che hanno un’inclinazione creativa. È un’idea che merita una considerazione più attenta, ma è solo uno dei tanti temi che Opus tira fuori come uno strumento che non sa bene come utilizzare.

Uno spettacolo di marionette

Una scena di Opus – © A24

Green, che in precedenza era un editorialista in stile GQ, critica il giornalismo cartaceo, la cultura delle celebrità e le pop star. Ma i suoi obiettivi tendono a essere piuttosto ampi e il suo scopo è casuale. La storia passata di Alfred non riesce a essere minimamente convincente: le clip di fake news che vediamo su di lui durante il suo periodo di massimo splendore negli anni ’90 suggeriscono che fosse una bizzarra combinazione di Elton John e Steve Jobs, e – per quanto Malkovich possa essere a volte divertente in modalità assurdamente pretenziosa – non riesce mai a gestire del tutto l’aura da icona pop di Alfred.

Uno strano spettacolo di marionette che Green mette in scena a metà della storia sembra una metafora fin troppo adatta per un film in cui i fili narrativi sono manipolati goffamente, e la mancanza di paura che risulta da Opus come conseguenza della sua costruzione narrativa poco interessante tende a smorzare la curiosità dei segreti del culto di Alfred. Il potenziale di Opus di essere qualcosa di più acuto è evidente in brevi sprazzi, quando il film coglie le vulnerabilità del rimanere fedeli a se stessi/e in un’epoca di adorazione delle celebrità e conformismo; tuttavia, anche questo risulta essere troppo macchinoso per acquisire credibilità.

Col senno di poi, il film esprime il suo punto di vista in modo più efficace nel momento precedente, in cui Alfred esegue una danza imbarazzante mentre il suo presunto capolavoro risuona in sottofondo, laddove le sue ospiti sono troppo rapite dalla loro vicinanza a un’icona per preoccuparsi che la musica sia una brodaglia pop riciclata. La canzone è banale e ripetitiva come il resto del film, ma richiede comunque che la gente batta le mani a tempo.

Gioco del gatto e topo senza vincitori

Una scena di Opus – © A24

Un’opera come Opus, quindi, aveva il potenziale per essere un film che definisce il nostro momento attuale, ma gli attacchi poco convinti alla cultura delle celebrità non sono mai abbastanza taglienti o incisivi da entrare sotto pelle. Piuttosto rapidamente, emerge una dinamica come quella di The Menu, con le fedeli lavoratrici di Moretti che fanno lealmente tutto ciò che viene loro detto. È evidente come nessuno tranne Ariel fiuti che qualcosa di sinistro stia accadendo all’interno della devota comunità. Opus però non si preoccupa molto di spiegare le motivazioni di Moretti.

Ci sono solo informazioni sufficienti per comprendere quanto quest’ultimo fosse scoraggiato dal modo in cui tutti nel mondo, dai media ai fan, si sentivano in diritto di avere un pezzo di lui. Mentre le cose si intensificano, Ariel rimane bloccata nel complesso, nonostante tutti i suoi sforzi per andarsene; il numero dei cadaveri aumenta e inizia un gioco del gatto e del topo che ci porta stancamente a un finale che lascia con l’amaro in bocca.

 

Conclusioni

5.0 Piatto

Opus è un film che non riesce a essere all'altezza delle proprie ambizioni, tanto desideroso di stupire quanto costretto a vivere di luce riflessa rispetto ad altre decine di opere precedenti. Un grande cast attoriale non basta a rendere l'operazione soddisfacente.

Pro
  1. Splendida performance attoriale di Ayo Edebiri
  2. Un primo atto abbastanza coinvolgente
Contro
  1. Scarsa complessità narrativa e tematica
  2. Troppo derivativo
  • Voto ScreenWorld 5
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Ilaria Franciotti ha conseguito la laurea triennale in DAMS, la laurea magistrale in Cinema, televisione, produzione multimediale e il master in Studi e politiche di genere all’Università degli Studi Roma Tre. Si occupa di narratologia e drammaturgia del film, gender studies, horror studies, cinema e serie TV delle donne. Insegna analisi e storia del cinema e teoria e pratica della sceneggiatura. Ha collaborato con Segnocinema, è redattrice di Leggendaria e collaboratrice di The Post Internazionale, e ha scritto per diverse riviste di cinema (tra cui Marla e Nocturno). È autrice di Maleficent’s Journey (Il Glifo, Roma 2016), A Brave Journey. Il viaggio dell’Eroina nella narrazione cinematografica (Ledizioni, Milano 2021), ed è curatrice e coautrice di La voce liberata. Nove ritratti di femminilità negata (Chipiùneart, Roma 2021). Dal 2023 è curatrice del podcast Ilaria in Wonderland, interamente dedicato al cinema horror.