Ci sono film immortali per bellezza e poesia, per quella attitudine nel far continuare a sognare lo spettatore. Allo stesso tempo, esistono film che entrano nell’immaginario collettivo, perché capaci di incarnare ciò che la comunità vive e prova, rappresentando come una fotografia ricca di dettagli minuziosi, la condizione di milioni di persone. Poi, ci sono personaggi che vivono trasversalmente tutte le generazioni, tramandati di racconti in racconti e rimanendo cuciti alle memorie, proclamati icone. Il termine fantozziano, per esempio, derivato dal personaggio nato dalla mente di Paolo Villaggio, si aggancia immediatamente a quell’idea precisa di inetto sfortunato, ridicolo e servile che custodiamo nella nostra mente.
Erano gli anni Settanta, quelli della fine del boom economico e l’inizio dell’instabilità, della moda e dei colori sgargianti e in Italia usciva nelle sale il simbolo della disfatta dell’uomo medio. Il ragionier Ugo Fantozzi, la merdaccia che si lancia dalla finestra per arrivare in orario sul luogo di lavoro, deriso da un’intera collettività, umiliato dalla collega bramata da tutti, con una moglie fuori ogni canone possibile di bellezza e una figlia pungiball di qualsiasi aspro commento. Sono trascorsi 50 anni da quella prima proiezione e Fantozzi è ancora oggi uno degli emblemi di questo Paese, rappresentante massimo di un’epoca italiana che sembra molto distante da quella attuale.
Nei decenni si sono susseguite analisi approfondite sull’aspetto politico e sociologico del personaggio di Villaggio; noi, qui, vogliamo provare a tracciare una chiave di lettura diversa, che pone le basi sull’aspetto più psicologico del ragioniere e la sua incommensurabile attrazione verso le avversità.
Fantozzi: l’insipido uomo medio

Ugo Fantozzi ha probabilmente bisogno di poche presentazioni. Ragioniere immerso nelle mille scartoffie, conduce una vita morigerata, fatta di cartellini timbrati, una moglie brutta, una figlia ancora di più, vestito con insufficiente brio e scarso gusto. Inglobato all’interno del grande sistema dell’azienda dei potenti, Fantozzi non riesce mai, è fuori luogo, impacciato, poco piacente, intellettualmente poco stimolante, più adatto al non verbale che all’espressione completa dei suoi pensieri, piatto. Il niente. L’unico piacere che ancora rimane da assaporare è quello del tifo calcistico, davanti a uno schermo a tubo catodico che sprofonda nei colori del Bel Paese. Insomma, Ugo è per definizione il prototipo dell’uomo medio insipido, che sbarca nell’ufficio di chi ha una poltrona in pelle umana e un gigantesco acquario per dipendenti, mentre rincorre l’autobus per arrivare in ufficio in orario, insieme a un ammasso di persone come lui.
Un personaggio che, nonostante le caratteristiche iperboliche, è talmente reale da prendere spunto dall’esperienza di Paolo Villaggio nella Italimpianti, azienda dove aveva lavorato e in cui aveva osservato i suoi colleghi. Ugo diventa la proiezione cinematografica di una realtà comune che non piace a nessuno, da ridicolizzare e di cui ridere almeno superficialmente e che al contempo consente di mettere a nudo coloro che detengono il potere. Ugo è il frutto marcio di un sistema avvelenato che opprime. Ma è davvero solo questo?
Quale desiderio di vita?

Viaggiando su un rasoio che oscilla fra ciò che effettivamente rappresenta e ciò che vorrebbe essere, Fantozzi è completamente schiacciato dal sistema claustrofobico. Tuttavia, riportare la sorte a un’interpretazione solo di questa natura, non consentirebbe di vedere la creatura di Villaggio nella sua interezza. Il suo destino è misero ovunque, compreso fra le quatto mura domestiche, dove il rapporto con la moglie Pina è segnato da uno sguardo costante di compatimento.
Il loro rapporto non sembra scandito dall’amore, ma somiglia piuttosto a un legame dettato dalla solitudine e dalla parola coniugale. Non c’è spazio per la condivisione emotiva, per l’affettività, non ci sono scambi soggettivi, la passione è completamente spostata sul piano della fantasia – magistralmente rappresentata dalla lingua di fuori fra i denti. Insomma, un uomo che, anche fuori ufficio, non trova il desiderio di vita.
L’antieroe anni Settanta

Ma nella realtà, uomini così sfigati non esistono. Ogni circostanza è buona per ricordargli la sua incapacità e quando il fato è dalla sua parte giunge una sfiziosissima nuvoletta capace di ristabilire gli equilibri nefasti e ricordargli che lui non può proprio provare piacere. Possibile? Saremmo portati a dedurre che in Fantozzi ci sia una sorta di propensione a inserirsi all’interno di circostanze che lo denigrino e che rendano di lui l’immagine dell’individuo non all’altezza. È un po’ come se la sua identità coincidesse con quello e paradossalmente avesse bisogno sempre di situazioni capaci di rendergli nuovamente quell’immagine di sé.
Si sente terribilmente sfortunato, avverte che il mondo lo mangia vivo e si percepisce inerme dinanzi a esso – nonostante qualche guizzo di protesta saltuario. Ma Fantozzi, in verità, non fa altro che inserirsi all’interno di sipari simili, in una sorta di coazione a ripetere che rimandi, in tale sofferenza, un senso di sicurezza, equilibrio, generando anche una simil forma di godimento verso la punizione fisica e morale. Un prototipo di antieroe anni Settanta che ritrae antiteticamente la bellezza statuaria, la forza, il coraggio e la tenacia di chi riesce nelle imprese eroiche.
La (non) comicità della sofferenza

Ugo è una “merdaccia” per il mondo intero, un uomo grigio la cui missione è quella di soffrire e annegare nel fango. In questo senso è emblematica la scena in Fantozzi alla riscossa quando incontra una caricatura di terapeuta che abbozza una specie di seduta in un setting non protetto, in cui il mondo partecipa attivamente all’ennesima umiliazione. L’analista stesso, dopo averlo ascoltato per tre interi taccuini, gli restituisce con una risposta contro-transferale sadica che non è possibile fare niente e l’unica soluzione è l’accettazione della sua condizione di inferiorità, meritando il plauso del pubblico.
Fantozzi è un personaggio di cui non è possibile amare alcun aspetto. Anche noi spettatori slittiamo da una visione di desiderio di aiuto per la troppa pena – agganciandosi alla nostra considerazione di proiezione drammatica – e un desiderio intenso di denigrarlo – agganciandosi alla nostra considerazione di proiezione comica. In questo senso, somiglia molto a quello che la letteratura riporta a proposito della risposta contro-transferale dinanzi alle dinamiche masochiste, in cui vige un polo di forte accudimento da parte dell’analista che accoglie il paziente e dall’altra un desiderio di “distruzione” dello stesso.
Fantozzi: schiacciatelo, schiacciatelo tutti!

Questo senso di disperazione grigia angosciante è ben rimarcata anche dal rapporto con il cibo. In questo, infatti, non sembra esserci un principio di godimento, un piacere vitale nei confronti di una buona cucina, ma anzi, un aspetto più che altro riempitivo, capace da una parte di placare, ma dall’altra, talmente tanto sfacciato, da essere quasi mortifero. Se ci fermassimo a riflettere e facessimo volare un po’ la fantasia, potremmo pensare il cibo in ottica psicoanalitica, come il simbolo di qualcosa che nutre in termini più emotivi/affettivi (pensate al nutrimento madre-bambino, che non è solo vitale in termini oggettivi, ma anche più metaforici).
Qui, il cibo diventa qualcosa di tracotante, senza misura, vorace, a tratti animalesco, quasi come se anche la pietanza dovesse schiacciarlo da quanto riempitivo, rimandando un senso letale dell’atto di piacere.
Schiacciatelo, schiacciatelo tutti ancora di più!

Il suo unico “prodotto” è Mariangela, la figlia derisa dal mondo per la sua bruttezza, dalle sembianze scimmiesche. Insomma, anche quella parte di lui è assolutamente non amabile. Anche la moglie Pina, altrettanto chiusa nel suo sistema di nullità, a un certo punto della storia matrimoniale lo rinnega desiderando il panettiere. La casa diviene, infatti, un santuario di ogni forma di lievitati, segno evidente dell’innamoramento fedifrago per un uomo che ricalca invece lo stereotipo opposto del ragionier Fantozzi. In questo senso, potremmo giocare anche sulla fantasia che Pina a un certo punto richieda le attenzioni del marito, mettendo sotto il naso dello stesso la propria pulsione sessuale verso altre mete, cercando di stimolare quel senso di morte che probabilmente anche lei stessa avverte. Tentativo fallito: il panettiere la respinge e Ugo la perdona.
Non solo. L’azienda in cui lavora, che potremmo pensare come La Grande Madre che sfrutta senza possibilità di ribellione i suoi figli/dipendenti, non vede i bisogni dei lavoratori e di conseguenza non li accoglie, togliendo loro l’aria. Fantozzi subisce una fascinazione profonda nei confronti dell’autorità, diventandone prima servo indiscusso e successivamente elogiando implicitamente la parte più oscura di questa, ponendo in essere un sistema difensivo di diniego, che lo ancora maggiormente al sistema dei sadici. Non a caso, nel primo episodio della saga, assistiamo a visioni allucinatorie di natura mistica, le quali potrebbero essere lette anche nella massima caricatura di un oggetto onnipotente che redarguisce e osserva dall’alto. D’altronde, inserito nel contesto dell’Italia anni Settanta, quale massima autorità, se non Gesù Cristo?
La centrifuga di tutti noi

Fantozzi è un’enorme centrifuga di tutte le nostre parti che non vogliamo vedere. Un’iperbole costante di drammi che sembrano lontani da noi e oggi anche dalla nostra società. Una moglie troppo insipida, una figlia troppo brutta, un lavoro troppo schiacciante, una vita troppo colma di sfighe. Parliamoci chiaro: chi di noi vorrebbe mai essere Fantozzi? Nessuno. Eppure, ognuno di noi ha una parte fantozziana, ognuno di noi vive intimamente o meno i drammi dell’invisibilità, del dolore claustrofobico, del peso dell’impotenza. Vedere Fantozzi rigenera le nostre esistenze, facendoci sentire migliori – d’altronde a lui va discretamente peggio tutto sommato.
Il ragionier Ugo incarna dunque il simbolo di tutto ciò che non desideriamo toccare e ammettere della nostra esistenza, proiettandolo in un uomo scialbo e sottomesso anche al giogo della nostra visione del mondo. In questo senso, un’enorme centrifuga delle nostre parti dissociate, non accettate, non desiderate, rifiutate e che il personaggio si sobbarca pienamente.
Sono trascorsi 50 anni dall’uscita di Fantozzi e, nonostante la sua immortalità, oramai è il simbolo di una società decisamente superata. Se oggi dovessimo mostrarlo nelle scuole, i figli degli anni Duemila non riuscirebbero né a ridere, né a provare pena probabilmente. Sarebbe semplicemente fuori tempo. Nonostante questo, Ugo Fantozzi non è solo l’antieroe nell’accezione di impotenza e immobilità dinanzi al cambiamento. È anche l’eroe moderno di cui abbiamo maggiormente bisogno, ma che non ci meritiamo. In una società patinata da colori Pantone, dove vige un principio di armocromia per ogni step della vita, in cui al primo posto abbiamo l’inconsistenza di un’apparenza perfetta, il ragioniere sembra decisamente fuori concorso. Eppure era quantomeno così terribilmente vero.