Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. La persecuzione e lo sterminio degli ebrei è una pagina nera della storia, culminata in un grande processo che cambiò per sempre il Diritto Internazionale: il processo di Norimberga, durante il quale per la prima volta furono mostrati e narrati gli orrori attuati nei campi di sterminio.
Mentre i soldati morivano al fronte e le città venivano martoriate dai bombardamenti, milioni di ebrei, disabili, omosessuali e rom venivano deportati nei campi di sterminio tedeschi dove, dal momento in cui varcavano la soglia erano torturati e uccisi nelle camere a gas. Dal Dopoguerra in poi il coro di voci che sentivano la necessità di raccontare quel momento oscuro della storia è diventato sempre più forte e si è espresso attraverso l’arte e la narrazione in generale. In particolare il Cinema ha saputo imprimere nella memoria e nei cuori di milioni di spettatori, numerose storie piene di emozioni che hanno raccontato l’Olocausto, ricordandone le vittime.
Scegliere i migliori film da guardare il 27 gennaio è un’impresa ardua e, quindi, abbiamo pensato di fare una scelta di cuore, proponendovi quelli che secondo noi sono i 10 migliori film sull’Olocausto da vedere il giorno della memoria, scelti soprattutto in base all’impatto emotivo che hanno avuto sugli spettatori.
1. La zona d’interesse (2023)
Il miglior film sull’olocausto è La zona d’interesse di Jonathan Glazer. La pellicola torna al cinema proprio in questi giorni, in occasione del Giorno della Memoria. Presentato al 76° Festival di Cannes ha rappresentato, forse dopo molti anni, con originalità il tema dell’Olocausto servendosi di una narrazione non convenzionale. La zona d’interesse è uno schiaffo in pieno viso, spiazzante e forte, che ci mostra l’altra faccia della medaglia, forse mai raccontata davvero. Con la naturalezza di una fiaba rappresenta la quotidianità della famiglia di un gerarca nazista incaricato di presidiare i “lavori” nel campo di Auschwitz. La villa in cui vive questa famiglia apparentemente normale è proprio accanto al campo.
Come in un film di Ari Aster, che ha rivoluzionato il genere horror, c’è tanta luce e le ombre e l’oscurità che ci aspetteremmo di trovare in un film che racconta gli orrori dell’Olocausto qui non ci sono, se non in precisi momenti. Inoltre non vediamo mai gli ebrei o quello che subiscono (cosa che ci aspetteremmo di vedere), ma il dramma vero è che sentiamo comunque tutto il dolore e l’orrore che quelle persone subirono, in parte anche per il sound design che sottolinea alcuni momenti, dall’abbaiare dei cani alle grida dei prigionieri. La tecnica narrativa parte dal presupposto che tutti conoscono la storia, suscitando una paura serpeggiante per tutta la visione.

Ma dov’è dunque l’orrore? Mentre osserviamo il “gruppo di famiglia in un interno” oltre i confini della casetta c’è un’altra casa, la casa della morte: Auschwitz, con il suo filo spinato e la doppia cinta di mattoni. Gli abitanti di questa “casa” soffocano nelle camere a gas, mentre gli altri vivono la loro “normale” esistenza. Lo sconvolgimento, quindi, deriva non da ciò che vediamo ma da ciò che “sentiamo” mentre stiamo guardando la vita di una famiglia come un’altra, con i suoi problemi e i suoi sogni, quando dall’altra parte sappiamo che ci sono solo residui di famiglie e l’ombra di ciò che sono state. Come direbbe Primo Levi, si possono definire tali in quelle condizioni?
Un film che persino Spielberg considera il migliore sull’argomento. Un film che è l’esasperazione della banalità del male e lo vediamo in diverse scene emblematiche. Una di queste è quando la madre di famiglia riceve in dono dal marito una pelliccia. Un regalo nudo, come la persona a cui apparteneva, senza pacchetto, senza confezione da scartare. Il regalo rubato porta nella tasca un rossetto con il quale la donna (quella fortunata) si gingilla davanti allo specchio.
Lo straniamento dato da La zona d’interesse è, quindi, uno dei motivi principali per vedere questo film, poiché non c’è niente di più terrificante che vedere una famiglia felice alle porte dell’inferno.
2. Shindler’s List (1993)
Impossibile parlare del Giorno della Memoria e dei film sull’Olocausto senza pensare a quel cappottino rosso e alla bambina bionda che lo indossa, mentre cammina apparentemente inconsapevole in mezzo ad una folla in agitazione, durante il rastrellamento del ghetto, come se stesse semplicemente tornando a casa dopo una mattinata di giochi. Shindler’s list è tratto dalla vera storia di Oskar Shindler che salvò migliaia di ebrei, vista dal commosso ma sapiente sguardo di Steven Spielberg che dopo una ricca produzione di film che potremmo definire “blockbuster d’autore”, trent’anni fa scosse e sorprese le platee di tutto il mondo, con un film che raccontava l’Olocausto attraverso una visione originale ma fotografica che non si sarebbe vista facilmente per molti anni a venire (praticamente fino a La zona d’interesse).
Il film, tratto dal libro omonimo di Thomas Keneally, ha letteralmente cambiato la percezione dell’Olocausto nel mondo e, in effetti, fino a quel momento erano stati davvero pochi i film sul tema altrettanto significativi. Spielberg ha mostrato con la freddezza del bianco e nero (scelta evidentemente simbolica) lo stesso freddo e la crudeltà dei lager nazisti, risparmiando davvero poco al commosso sguardo del pubblico. Ma tutto questo lo ha fatto liberando un fiume in piena di emozioni, perché anche se dal punto di vista fotografico il film rispecchia l’inumano di quella pagina della storia, dal punto di vista emotivo lascia un solco profondo nel cuore di tutti.

Ma torniamo a quel cappottino rosso che spicca nel bianco e nero, nella sua semplicità è un’immagine fortemente simbolica, difficile da dimenticare non solo dal punto di vista visivo, ma anche per ciò che rappresenta. La bambina nel film compare due volte e una di queste la vede in mezzo ad altri corpi senza vita. Il cappotto rosso ha diversi significati, uno di questi è la speranza che in quegli anni morì insieme alle vittime della guerra e del genocidio, ma per Spielberg rappresenta l’indifferenza del mondo. Nonostante i crimini commessi nei lager e la persecuzione razziale fossero noti a tutti ed evidenti, come una macchia di sangue su un telo bianco, nessuno fece nulla. Lo sguardo di Liam Neeson (Shindler) mentre nota in mezzo alla folla quella bambina, rappresenta l’incapacità di alcuni esseri umani di voltare lo sguardo e fingere che certe cose non accadono, a differenza di altri che invece fecero finta di nulla.
Vedere Shindler’s list dunque è come osservare una fotografia (in bianco e nero appunto) molto dettagliata che racconta con dovizia di particolari cosa fu l’Olocausto e i diversi modi in cui gli esseri umani reagirono di fronte al “cappottino rosso”.
3. La tregua (1997)
Diretto da Francesco Rosi, tra i registi che meglio hanno saputo raccontare Napoli al cinema e non solo, e tratto dal libro autobiografico di Primo Levi, La tregua è senza dubbio uno dei film più adatti da vedere nel Giorno della Memoria per un motivo che tuttavia non ha direttamente a che fare con i campi di concentramento. Questa pellicola non si limita a raccontare la tragedia dell’Olocausto, ma esplora la complessità del ritorno alla vita dopo l’inferno nei lager, offrendo una prospettiva unica e profondamente umana che risuona con forza nello spettatore perché risponde alla domanda: cosa è successo dopo?
Rosi racconta la storia del protagonista, Primo Levi, nel suo lungo viaggio di ritorno a casa dopo la liberazione dal campo di Auschwitz. Questo viaggio, che dovrebbe rappresentare una liberazione appunto, si rivela invece un percorso di ricostruzione doloroso e pieno di incertezze. Lo spettatore è trascinato in questa lunga marcia verso casa, una marcia altrettanto dolorosa se pur liberatoria, tra incontri, ostacoli, e riflessioni, che si alternano tra il desiderio di ritrovare una normalità perduta e il peso insostenibile dei ricordi. Come si ricostruisce un’anima spezzata? Come si torna uomini dopo aver vissuto senza dignità né identità?

Uno degli aspetti più potenti del film è la sua rappresentazione della condizione umana. Levi e gli altri sopravvissuti non sono solo vittime, ma esseri umani appunto che cercano di ritrovare un’identità dopo essere stati spogliati di ogni cosa, perfino del proprio nome. Rosi usa magistralmente le immagini per comunicare questa transizione. I volti segnati dei protagonisti, i paesaggi desolati e gli interminabili treni evocano un senso di spaesamento universale, sottolineando il senso di forte precarietà che quelle persone dovettero provare dopo quella fine apparente. La verità è che finito un inferno per alcuni di loro ne iniziò un altro. Primo Levi è qui come un Ulisse che cerca di tornare a Itaca intraprendendo un viaggio che sembra non avere fine.
In questo senso, La tregua non è solo un racconto di dolore, ma anche un tributo alla resilienza. I piccoli gesti di solidarietà tra i sopravvissuti, i legami che si formano lungo il viaggio e i rari momenti di leggerezza sono presentati come testimonianza della forza dello spirito umano che malgrado tutto trova uno spiraglio di luce di fronte alla devastazione. La tregua non si limita a denunciare le atrocità del passato, ma esplora la capacità dell’essere umano di riprendersi dopo traumi inimmaginabili. Guardarlo significa interrogarsi su cosa vuol dire veramente “ritornare alla vita.”
4. La scelta di Sophie (1982)
A proposito di ciò che accadde dopo l’Olocausto, La scelta di Sophie di Alan J. Pakula è sicuramente tra i film più importanti. Abbiamo già visto con La tregua che per le molte persone che sopravvissero ai campi di sterminio, tornare alla vita fu difficile se non impossibile. La scelta di Sophie approfondisce proprio la sindrome del sopravvissuto considerata tra le principali componenti del disturbo post traumatico da stress.
La Sophie (Meryl Streep, pronta a tornare su Il diavolo veste Prada 2) del titolo è una donna polacca sopravvissuta ad Auschwitz il cui passato viene svelato da lei stessa in più momenti del film che somigliano alle confessioni di una prigioniera. Ma chi è il suo confessore? Un giovane scrittore, Stingo (Peter MacNicol) originario della Virginia che a due anni dalla fine della guerra si trasferisce a Brooklyn per scrivere il suo primo romanzo. Nella casa a tinte rosa dove ha preso in affitto una stanza vive una coppia molto litigiosa, Sophie appunto e Nathan, biologo ebreo interpretato da un magnifico Kevin Kline agli esordi, i quali entrano nella vita di Stingo in modo brusco e dirompente segnandola per sempre.

I tre protagonisti hanno un rapporto di amicizia e amore che ricorda molto Jules e Jim e in effetti le somiglianze con il film di Truffaut non sono poche se consideriamo il conflitto eros e thanatos che sostiene la storia e il finale molto simile. Sophie e Nathan sono costantemente in bilico tra la vita e la morte le stesse parole di Nathan nella sua prima apparizione in scena e quelle che poi le rivolgerà in un secondo momento, ruotano intorno alla fine dell’esistenza. La sua prima battuta è:
Sophie io ho bisogno di te come si ha bisogno della morte
e poi
Sophie, noi stiamo morendo
Molto presto nel corso della storia comprenderemo che per i due la morte è l’ultimo slancio vitale al quale aggrapparsi per trovare davvero la libertà.
La scelta, questa parola che pesa per tutto il film è la catena che impedisce alla protagonista di riprendersi davvero la propria vita e pertanto la morte sarebbe una liberazione. Sophie vive come in un limbo tra l’inferno vissuto ad Auschwitz e la vita dopo la guerra a causa della scelta che fu costretta a fare: un nazista le impose di scegliere quale dei due figli tenere, l’altro sarebbe finito subito in un forno crematorio. Questa confessione, che arriva dopo altre rivelazioni, la ascoltiamo sul drammatico volto di Sophie in primo piano che in un lungo flashback racconta di come il suo ruolo di madre fu snaturato e violato a causa di quell’esperienza. Merita ancora di vivere e di essere di nuovo madre? Sophie sente di non poter fare altro che esistere e lasciarsi andare alla leggerezza e all’insensata euforia di Nathan che la trascina nella follia e in questo vortice che culmina con la morte.
5. Il pianista (2002)
Il pianista di Roman Polanski e tratto dall’autobiografia di Władysław Szpilman, parte dalla storia di un singolo giovane uomo, con tutte le possibilità davanti a sé, per raccontare come quelle stesse possibilità di un futuro roseo e soddisfacente furono spazzate via dalla furia nazista. Il film si basa sulla vera storia di Szpilman, un pianista ebreo-polacco che sopravvisse alle persecuzioni naziste a Varsavia. Attraverso il suo viaggio, assistiamo allo sgretolarsi di tutta la sua vita e della sua famiglia vittima della persecuzione.
L’originalità del film sta nel punto di vista, quello intimo, umano e personale di un singolo individuo attraverso il cui sguardo vediamo tutto ciò che accadde in quegli anni orribili come se fossimo nei suoi panni. In quest’opera non troviamo dunque numeri o fatti storici ma l’esperienza di una persona che lotta per la sopravvivenza. Questo film colpisce profondamente lo spettatore perché combina il silenzio alla musica e alla crudezza visiva degli avvenimenti, trasferendo il senso di isolamento, vulnerabilità e resistenza che prova il protagonista.

Ogni scena è intrisa di un senso di perdita, dolore e disumanità che trascende lo schermo e risulta evidente dalla trasformazione del volto di Adrien Brody (reduce dal successo di The Brutalist) che interpreta il pianista. Dall’ordine e la pulizia del volto disteso di un uomo con un grande avvenire davanti si passa al caos, gli occhi pieni di paura e la barba incolta. Una delle sequenze più commoventi è quella in cui Szpilman suona il piano “nell’aria”, senza toccare i tasti, per non farsi scoprire dai nazisti. Questo momento simboleggia non solo la resilienza del personaggio, ma anche il potere salvifico dell’arte, che continua a vivere nonostante tutto. Anzi proprio l’arte è capace di elevarsi al di sopra di ogni cosa e salvarci dalla brutalità dell’esistenza. Quello è un momento di bellezza straziante, in cui la musica diventa un linguaggio universale che resiste alla distruzione e alla morte.
La sopravvivenza di Szpilman diventa un simbolo di speranza, ma una speranza fragile, costruita sulle macerie dell’umanità. Polanski, lui stesso sopravvissuto al ghetto di Cracovia, porta un’autenticità unica al film. L’ambientazione, i costumi e la fotografia evocano in modo realistico l’atmosfera della Varsavia occupata dai nazisti, immergendo lo spettatore in un mondo in cui ogni dettaglio è curato per trasmettere la brutalità della guerra.
6. La vita è bella (1997)
È possibile trasformare l’orrore in gioco? Solo a pensare una cosa del genere sembra tutto assurdo, eppure Roberto Benigni e Vincenzo Cerami sono riusciti a raccontare l’Olocausto e la persecuzione degli ebrei con una commedia (genere fino a quel momento mai usato nel cinema per rappresentare questi argomenti) dall’aspetto favolistico.
Protagonista è Guido Orefice (lo stesso Benigni), un libraio ebreo che incontra per caso una giovane donna, Dora (Nicoletta Braschi) di cui si innamora follemente al primo sguardo. Dopo pochi anni di matrimonio e con un figlio piccolo tutta la famiglia viene deportata in un lager e qui Guido si imbarca in una missione apparentemente impossibile, far credere a suo figlio che stanno partecipando a un gioco e che se supereranno le durissime prove che gli si presentano davanti vinceranno un bellissimo premio: un vero carro armato.

Il personaggio di Guido è un’ottimista che cerca sempre la felicità, anche nei momenti più difficili della vita, è un personaggio sempre positivo e allegro che ama come un bambino e mostra continuamente alla donna che ama e al figlio quanto la vita può essere magica e bella. Il tema sta proprio qui, nel fatto che l’amore è capace di dare all’uomo una forza sovrumana che gli consente anche di fare l’impossibile, perfino far passare l’orrore dei lager per un gioco. Ed è proprio ciò che accade ne La vita è bella. Lo stesso titolo scelto da Benigni e Cerami è un omaggio alla vita, che trova conferma nelle parole scritte da Lev Trockij prima:
“La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore”
e da Primo Levi poi, proprio nel suo libro Se questo è un uomo:
“Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso”.
Pensieri come questi e film come La vita è bellaservono a ricordare la bellezza di cui è capace l’essere umano che sa risollevarsi nei momenti difficili e malgrado tutto, andare avanti.
7. Il diario di Anna Frank (1959)
La storia di Anna Frank tratta dal suo diario (che ancora oggi fa discutere molto) e qui diretta da George Stevens, è senza dubbio una delle storie più significative e toccanti su cui soffermarsi per comprendere l’Olocausto e comprenderlo dal punto di vista di una giovane ragazza come fu Anna. Questa pellicola non solo racconta una delle storie più emblematiche della guerra, ma riesce anche a trasmettere un’intensità emotiva e un messaggio universale che restano impressi nello spettatore, fondamentalmente lo stesso messaggio d’amore e fiducia nella vita e nell’essere umano che abbiamo visto ne La vita è bella.
Il celebre diario scritto da Anna Frank durante i suoi anni di nascondiglio nei Paesi Bassi occupati dai nazisti viene qui ripreso non solo come uno dei migliori adattamenti cinematografici, ma anche come tributo rispettoso a una delle voci che resistettero all’annientamento e che nonostante la fine di Anna Frank, ci parla ancora oggi. Attraverso gli occhi di Anna, una ragazza di 13 anni piena di speranza, sogni e vitalità, il pubblico viene condotto dentro una realtà di sofferenza e paura, ma anche grande resistenza e umanità. La consapevolezza che questa storia non sia frutto della finzione, ma la cronaca di una tragedia realmente vissuta, aggiunge un peso emotivo che si intensifica nel momento in cui lo spettatore si rende conto del tragico destino che attende i protagonisti.

L’attenzione all’intimità della vita quotidiana, descritta dallo sguardo della giovane Anna è l’aspetto più interessante del film. Gli eventi si svolgono quasi interamente all’interno dell’angusto nascondiglio della famiglia Frank e di altre quattro persone, un microcosmo dove le relazioni umane si intrecciano e sono messe costantemente alla prova. La regia di George Stevens riesce a catturare sia i momenti di speranza, come i sogni di Anna di diventare una scrittrice, sia i momenti di profonda disperazione, come il costante timore di essere scoperti. Lo spettatore non può fare a meno di identificarsi con le emozioni universali dei personaggi: il bisogno di amore, la paura dell’ignoto e la necessità di resistere anche nelle condizioni più dure.
In contrasto con la bontà e l’ottimismo incessanti di Anna, vediamo anche le personalità dei suoi parenti, più disillusi di lei. In particolare ciò si evince in una scena agghiacciante che mostra la lucida consapevolezza di sua sorella maggiore, ormai sicura che quelli sono gli atti finali della sua vita e che anche se dovesse uscire viva da quella situazione ogni possibilità è bruciata, come se presentisse l’incapacità di tornare alla vita dopo tanto orrore. Anna, nonostante le circostanze invece, crede ancora nella bontà del genere umano e spera in un futuro migliore. Questo contrasto tra la brutalità della realtà e l’ottimismo incrollabile di una giovane ragazza risuona profondamente, ricordando che anche nei momenti più bui la speranza è un atto di resistenza.
8. Jojo Rabbit (2019)
Ancora una volta ci troviamo di fronte a una storia raccontata dal punto di vista dei “cattivi” ma sotto forma di commedia e sotto lo sguardo un bambino tedesco. Come abbiamo visto La vita è bella aveva sdoganato il genere della commedia con il tema dell’Olocausto e Jojo Rabbit riprende questo approccio e lo esaspera.
Il piccolo protagonista è addirittura un fan di Hitler, tanto che il dittatore in persona è il suo amico immaginario. Jojo vive con sua madre (Scarlett Joannson) mentre suo padre è al fronte e la sorella è morta. Jojo frequenta un campo di addestramento dove viene indottrinato all’ideologia nazista ma molto presto scoprirà un sacco di cose e il velo di bugie su cui si reggeva l’ideologia nazista cade per mostrare la dura realtà: la persecuzione di un popolo che ha avuto solo la colpa di essere nato. Ad aiutare Jojo in questo percorso di consapevolezza e di crescita, ci sarà Elsa (Thomasine McKenzie) una ragazza ebrea, un tempo compagna di classe della sorella di Jojo che sua madre nasconde in casa.

Il film ci dice molto sui tedeschi “buoni”, coloro che non accettarono l’ideologia nazista e che dovettero in qualche modo sopravvivere al male. Molti di questi tedeschi aiutarono per quanto possibile alcuni ebrei a salvarsi dallo sterminio e in alcuni casi ci riuscirono. Jojo Rabbit dunque ci racconta anche un’altra pagina della storia, sapendo ironizzare sui preconcetti assurdi sui quali si fonda il nazismo e prendendo in giro la stessa figura del Führer che qui viene raccontato come una macchietta a tratti ridicola verso cui lo stesso protagonista nutre dei dubbi. Inoltre attraverso il piccolo protagonista ci viene dimostrata l’insensatezza del razzismo. Jojo nel conoscere Elsa, non sa trovare in lei alcun elemento negativo, strano, cattivo o mostruoso sugli ebrei che gli è stato inculcato a forza dall’ideologia nazista.
Il film è un esempio di commedia brillante con momenti di forte drammaticità, come quello in cui ogni certezza del piccolo Jojo crolla quando vede che anche sua madre finisce vittima della mano nazista per aver aiutato un ebrea. Anche in questo film però la speranza verso una vita migliore aiuta l’animo dei protagonisti e la scelta di Heroes di David Bowie nel finale è simbolica. La canzone di Bowie fu bandiera di libertà insieme a The Wall dei Pink Floyd quando il muro di Berlino crollò. Concettualmente essa è vicina ai temi trattati nel film di Taika Waititi e quindi perfettamente aderente alla situazione, rappresentando il crollo del muro delle oppressioni in favore della libertà.
9. The Reader (2008)
Restando sul discorso della “normalità”, The Reader diretto da Stephen Daldry con i magnifici Kate Winslet e Ralph Fiennes (al cinema in questi giorni con Conclave) è un altro modo di raccontare la storia dell’Olocausto, ancora una volta dal punto di vista del carnefice.
Il film è un coming of age, in cui un quindicenne nella Germania post bellica incontra casualmente una donna di circa vent’anni più grande con la quale inizia un’appassionata relazione. Con Hanna il giovane Michael vive le sue prime esperienze sessuali e mentre lei gli insegna a fare l’amore, lui legge ad alta voce per lei i libri che gli assegnano a scuola. Dopo l’improvvisa scomparsa di Hanna, malgrado la sua sofferenza Michael va avanti con la sua vita e si iscrive alla facoltà di legge. Durante un seminario partecipa a un processo indetto contro un gruppo di naziste accusate di crimini contro l’umanità e tra queste, con grande stupore e sofferenza, Michael scopre che c’è anche la sua Hanna.
Conosciamo davvero le persone che amiamo? O ancora: una nazista è capace di provare amore e compassione? Il film dimostra evidentemente che i nazisti non erano i mostri a tre teste che immaginiamo ma avevano caratteristiche tutte umane. Quando si tratta di affrontare il male siamo portati ad allontanarlo da noi attribuendo ad esso delle caratteristiche inumane perché non vogliamo accettare l’uomo ha in sé tanto il bene quanto la malvagità e solo l’uomo è capace di agire in modi tanto crudeli e al contempo tanto belli. Nel film in questione Hanna si commuove in una piccola chiesa di campagna per il canto di un coro di bambini, ma con lo stesso candore e un’ingenuità quasi bambinesca risponde alle domande del giudice dicendo la verità. Il fatto che si tratti della stessa persona ci fa provare un senso di disagio perché stentiamo a crederlo, proprio come Michael.

Era cosciente di selezionare ogni mese 10 donne destinate alle camere a gas? Sì, ma questa era la regola, arrivavano sempre nuove donne e le vecchie dovevano fare spazio. In questa agghiacciante dichiarazione vediamo tutta l’ottusa ignoranza di Hanna, ma cosa proviamo? Un misto di sentimenti che non si riassumono solo nell’odio, ma sono evidenti nel volto di Michael che in lacrime sente un forte dolore. Soffre per se stesso, che non aveva capito niente, soffre per il disagio della consapevolezza di aver amato una nazista, soffre per lei che non si rende conto dell’assurdità delle sue parole e per il fatto di non riuscire a credere che la dolce e sensuale donna che lo ha iniziato all’amore era una sorvegliante delle SS.
Hanna dal canto suo è analfabeta e si vergogna più questo che di ciò che ha commesso nel lager anni prima: “I morti sono morti” dice a Michael quando lui le chiede se ha mai pensato a ciò che ha fatto.
Pochi film come questo ci fanno provare un mix di sentimenti e alla fine la risposta ce la da Lena Olin che qui interpreta un’ebrea sopravvissuta: “Faccia ciò che ritiene giusto”, questo dice a Michael quando lui le consegna dei soldi che Hanna le ha lasciato, quasi come risarcimento o forse come una richiesta di perdono dopo essersi tolta la vita. La donna non mostra pietà per la nazista che si è tolta la vita, ma comprende il dolore di Michael e allora lo invita a riflettere su ciò che ritiene giusto fare. Si può scindere la persona che si è amata dalle azioni che ha compiuto?
È un grande fardello che Michael deve portare e che nella vita siamo costretti a portare anche noi quando si presentano dissidi simili.
10. Il bambino con il pigiama a righe (2008)
Il bambino con il pigiama a righe, diretto da Mark Herman è tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne e si è distinto come una delle opere cinematografiche più toccanti e indelebili perché racconta la tragedia dell’Olocausto esclusivamente attraverso lo sguardo di un bambino tedesco che fa amicizia con un bambino ebreo. Questo film riesce a intrecciare la crudezza della storia con una delicatezza narrativa che lo rende un’esperienza emotiva unica e profondamente toccante.
Il film sembra voler rispondere alla storica domanda: le colpe dei padri possono ricadere sui figli? La vicenda ruota attorno all’amicizia tra Bruno (Asa Butterfield), un bambino tedesco figlio di un ufficiale nazista, e Shmuel (Jack Scanlon), un bambino ebreo imprigionato in un campo di concentramento. Questa scelta narrativa permette al film di esplorare la tragedia dell’Olocausto attraverso gli occhi dell’innocenza che non comprende pienamente l’orrore in cui si trova. Tale prospettiva, lontana dalla violenza esplicita e dall’analisi politica, evidenzia il contrasto tra la semplicità dell’infanzia che evidentemente non vede gli stessi problemi degli adulti e la brutalità corrotta degli stessi adulti che hanno creato tutti quei danni.

La purezza dell’amicizia tra i protagonisti, nata oltre le barriere del filo spinato, simboleggia un’umanità che supera il pregiudizio e l’odio. Questo rapporto, sviluppato in maniera intima e sincera, si contrappone alla disumanizzazione che caratterizzò le vittime dell’Olocausto. Bruno rispetto a suo padre, un militare nazista che esegue ottusamente gli ordini, ha una coscienza e si pone le domande giuste, grazie alla purezza d’animo che lo caratterizza. Il piccolo protagonista non sa spiegarsi perché un bambino come lui dovrebbe essere il nemico e se da un lato si chiede se gli ebrei siano davvero un pericolo, dall’altro si domanda se suo padre, il carceriere dei suddetti ebrei, sia una brava persona.
Bruno non avrà una risposta ai suoi dubbi ma suo padre avrà una lezione per il suo comportamento e per quello delle persone come lui che “eseguivano solo gli ordini”. L’amicizia tra i due bambini li impedisce di separarsi in un momento fatale per entrambi e di condividere la camera a gas. La scena conclusiva, con il tragico destino condiviso dai due bambini, lascia senza parole e con lo stomaco sotto sopra, mentre lo sguardo della camera va dritto verso la brutalità della Shoah. Una stanza vuota piena di pigiami a righe e scarpe, il segno di un mucchio di vite spezzate e l’orrore nello sguardo di un padre che forse ha compreso per la prima volta cosa vuol dire la morte dell’innocenza.