Grand Tour del regista portoghese Miguel Gomes (in sala dal 5 dicembre grazie a Lucky Red) è un viaggio sensoriale nei meandri dell’esotico. Luoghi distanti e avulsi al più conosciuto mondo occidentale, che da essi si discosta per eccessiva convinzione di civiltà. È veramente così? Il confine è labile a tal punto da convincerci che siano così tante le differenze? Gomes fomenta la sua fascinazione soprattutto per le culture di quei popoli senza scendere a compromessi con l’occhio differentemente abituato del pubblico rivolto più verso ovest.
In tal senso, la sfida del regista premiato all’ultimo festival di Cannes con il prestigioso riconoscimento alla Regia è indirizzata a coloro che apprezzano un tipo di Cinema e sguardo registico dall’approccio sperimentale: uno stile quasi sprezzante del pubblico generalista, che rischia molto più di disorientare anziché incuriosire. Proprio per queste ragioni l’opera del regista, già conosciuto per lo splendido Tabu e l’interessante Le mille e una notte, svolge un percorso travagliato tra mistero ed evasione occidentale. La visione è quella di un mondo (o di più mondi, segmenti di universo) i quali nodi arrancano a districarsi chiari ed evidenti, preferendo una stravaganza che riesca comunque ad affascinare.
Genere: Drammatico
Durata: 129 minuti
Uscita: 5 Dicembre 2024 (Cinema)
Cast: Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Cláudio da Silva
Una fuga dalla responsabilità
Grand Tour presuppone che il pubblico si abbandoni al viaggio compiuto dal protagonista Edward (Gonçalo Waddington), un esponente della corona britannica in Birmania, seguendo insieme a lui il flusso di una corrente tortuosa in cui è difficile stare a galla. Il film di coproduzione europea (tra cui figura anche l’Italia) richiede il massimo della concentrazione per desistere di fronte al mondo immaginato dal regista: la visione di Gomes è talmente sentita e convinta da farsi reale, come un lungo sogno senza risveglio.
Il protagonista del film, spacciato per una spia, si trova in oriente per scappare. Un uomo in fuga perenne da un passato incerto e instabile, ma anche da un presente pressante, rappresentato da una prossima moglie più che mai decisa a ritrovarlo, davanti alla quale però non riesce a responsabilizzarsi. Il percorso di Edward si arricchirà a ogni passo di esperienze e vite intrecciate, mentre in un altrove sempre più concreto Molly (Crista Alfaiate) intraprende il suo personale Grand Tour.
Una questione di globalizzazione
Fin da subito all’interno di Grand Tour incontriamo dei ragazzi, presumibilmente Birmani, che indossano tute con tanto di stemmi, loghi e riconoscimenti appartenenti a squadre di calcio europee – precisamente del Manchester United. È il globalismo che fa breccia anche nei luoghi più inattesi: l’influenza e la fascinazione scaturita dalle luci dello sfarzo e del benessere occidentale colpisce il vasto mondo territoriale orientale, piccolo poiché racchiuso in minuscole prospettive senza orizzonte.
Viceversa, l’Occidente è sempre stato attratto dalla precarietà che imperversava e pervade tuttora quei luoghi: in passato, questa curiosità era solita spingere i giovani rampolli della società benestante (in questo caso britannica) a vivere un viaggio di natura conoscitiva, stra-ordinaria. Viaggi che a loro modo hanno permesso al mondo di conoscersi per quel che è, con tutte le diversità al suo interno – fattori soprattutto di arricchimento, abbattitori di barriere sociali e politiche.
Brecce spazio-temporali
Nel film del regista portoghese è presente un massiccio interesse nei confronti del folklore locale, una fascinazione per tutto ciò che appare meno visibile ma che cela grandi verità. Nel caso di Gomes, comprendere il mistero del tessuto sociale di quei popoli si trasforma quasi in ossessione. Tramite l’utilizzo del voice-over, con il narratore che cambia in base al Paese che i protagonisti stanno attraversando, si sviluppa l’idea che ognuno abbia la propria voce, con un solo slancio a rappresentare l’emblema di un popolo intero.
Tra silenzi prolungati, quieti villaggi locali e ombre cinesi in minuscoli teatrini, accresce la presenza di stonanti anacronismi per tutto il film. Agli occhi occidentali, questi elementi potrebbero sembrare forzati: si tratta di particolari che prescindono dal tempo, che non si incastrano all’interno della Storia – al di fuori dei concetti a cui noi occidentali ci affidiamo per rassicurarsi. Un concetto estremamente stimolante, che si scontra inevitabilmente con la consistenza che la narrazione richiede, scadendo purtroppo nel presentare personaggi dallo spessore pressoché inesistente.
Se da un lato la mancanza di solidità è tipica di un Cinema razionale e realista, Grand Tour non si riconosce minimamente in quel Cinema, fatto di certezze e verità assolute. La verità di Gomes risiede nella malinconia del suo protagonista, incapace di venire a patto con la propria vita e pronto a sopperire ogni lucidità. Sostenuto da quei luoghi la cui unicità è tale da essere al di fuori di ogni tempo, Grand Tour gestisce il ritmo (talvolta esagerando) come una grande nebulosa di incertezza, trovando la sua quadra di suggestioni tramite un intersecarsi di musica strumentale e di memorie recondite.
Manca la solidità
Quel che vien da chiedersi durante e dopo la visione di Grand Tour è quanto sia funzionale un tipo di Cinema shockumentary che ammicca al genere documentaristico ricamandolo su una base di finzione. In un mondo in cui si cerca sempre di estrapolare dai fatti di cronaca delle storie romanzate, quanto può essere funzionale muoversi in direzione contraria? Specialmente quando abbiamo a che fare un un personaggio come il protagonista Edward, quasi assente e più vicino a un fantasma che a un essere in carne e ossa.
Non è un caso che il protagonista si faccia progressivamente da parte in favore della futura consorte Molly. Forse era proprio questo l’intento, tuttavia per sostenere un’idea solida, lo si deve fare con una narrazione che lo sia in egual misura – senza scadere in sentimentalismi dalla retorica stucchevole o elementi talmente criptici da nascondersi nell’ombra proprio come Edward, codardo di carattere, si nasconde nei posti più remoti in cerca di protezione e non di insegnamenti.
Abbandonarsi al mondo per scoprire quanto è generoso
Dunque cos’é Grand Tour di Miguel Gomes? È un film che si abbandona al mondo per scoprire quanto sia profondo e generoso, assecondando una grande gentilezza e bonomia che trabocca fino all’ultima scena. È un’opera che intende divulgare la bellezza del mistero di quei luoghi affascinanti, la cui lontananza che passa inosservata è ragione di interesse a chi ne osserva la diversità.
Non solo: Grand Tour è un film accusatorio nei confronti delle contraddizioni insite nell’uomo bianco occidentale, la cui ottusità impedisce di comprendere la bellezza della diversità che avvolge il mondo – portandolo a mortificarlo e a sminuirlo continuamente, ritenendo che ci sia sempre qualcuno da dominare o su cui estendere il proprio dominio per meri tornaconti personali.
O magari, infine, è una banale storia d’amore alla scoperta dei due futuri coniugi, le cui certezze vanno sgretolandosi quando realizzano che il dilemma alla base della coppia è nulla in confronto alla densità del mondo nel quale si sono addentrati.
Sottotitolo finale
Una cosa è certa però: questo tipo di Cinema rimane relegato all’interno di una cerchia circoscritta. Poiché è difficile (se non impossibile) che un’opera di tale bizzarria possa risultare accessibile o comprensibile al di fuori del contesto elitario e ricavato in cui si colloca. Il film di Gomes è e rimane un classico Cinema che purtroppo risulta anacronistico nella sua stessa natura, incapace di dare un senso alla contemporaneità. Gomes sperimenta e rischia ardentemente, ma rimane racchiuso (e protetto) da un palcoscenico troppo ristretto come quello dei circuiti festivalieri che ingabbiano il Cinema privandolo della sua più grande caratteristica: la dimensione popolare.
Alla fine del viaggio, Grand Tour è un ammaliante percorso nei meandri dell’Asia: una danza sinuosa che cattura e inebria come una potente droga che agisce sulla coscienza (soprattutto occidentale) per scuoterla dal suo torpore. Una girandola ipnotica di immagini e suoni che contrastano il linguaggio della contemporaneità, più razionale e lucido, ma decisamente più accessibile. Un iter all’interno di sé che compie una radiografia delle culture di molti popoli, abbietti e opulenti, la cui precarietà è tutto. L’abbraccio del silenzio quasi sfida a pretendere una tregua, abbracciando la liberazione dell’abbandono dei sensi e delle certezze. Se è questo che bisogna fare, a quel punto tutto è possibile. Che piaccia o no.
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Conclusioni
Nonostante un approccio estremamente affascinante su culture e viaggi personali, Grand Tour latita dal punto di vista della compattezza e della personalità dei suoi volti. Il risultato finale è un'opera che vive di contrasti e suggestioni, tanto ammaliante quanto esigente.