Dopo aver messo a soqquadro gli Stati Uniti e aver rischiato di far saltare in aria il duomo di Milano, l’universo Citadel sbarca in India con Honey Bunny (terza iterazione della serie globale in attesa di altri due capitoli previsti in Spagna e Messico). Solo che stavolta, nel progetto dei fratelli Russo esclusiva di Prime Video, c’è qualcosa di diverso rispetto alle spy story high-tech già viste nelle prime produzioni.

Qui non è Bollywood

Citadel Honey Bunnt scene
Legami e doveri in Citadel: Honey Bunny – © PrimeVideo

Non ci si aspetti il vigore sopra le righe di Bollywood: non siamo dalle parti di RRR, bensì di un action familiare più secco e moderno, centrato sui personaggi e gli attori prima che sulle situazioni mirabolanti. I protagonisti danno il titolo alla serie: Honey (Samantha, la versione un po’ dimessa della Priyanka Chopra del Citadel originario) è una principessa che ha abbandonato la vita regale per diventare attrice, ma senza talento opta per diventare agente segreto; Bunny (Varun Dhawan, uno Shah Rukh Khan in minore) è uno stuntman che lei conosce sul set – colui che la introduce alle missioni e poi la recluta per conto del Maestro. Otto anni dopo una missione drammatica e fallita (la serie si svolge tra il 1992 e il 2000), lei è nascosta per paura di essere trovata dai suoi ex-colleghi, lui farà in modo di salvarla insieme alla figlia.

Sviluppata da Sita Menon e diretta da due astri emergenti della tv indiana – più che del cinema – Raj & DK (sempre su Prime si trova il loro maggior successo, The Family Man, thriller spionistico dalle parti di Jason Bourne), Citadel: Honey Bunny non sceglie la via dell’iperbole o dell’esagerazione a un passo del grottesco che siamo soliti attribuire al cinema popolare indiano. Ci troviamo in un territorio quasi composto, oseremmo dire misurato, per quanto possa esserlo un thriller d’azione a sfondo spionistico. Perché Raj & DK hanno basato gran parte dell’interesse del racconto – che aveva un budget inferiore rispetto ai due omologhi del franchise – sui personaggi e sui loro rapporti, sulle vicende che li hanno coinvolti nel passato e le conseguenze nel presente.

Il lato umano delle spie (e degli stunt)

Citadel Honey Bunny scene
Una sequenza di Citadel: Honey Bunny – © Prime Video

Anche dal punto di vista della messinscena, la serie opta per un tono più classico, per una suspense più adatta a un pubblico globale e “televisivo”, senza però rinunciare a sequenze d’azione e combattimento realizzate con perizia – come il combattimento combinato alla corsa automobilistica del primo episodio o l’incursione del finale, tra sparatorie e corpo a corpo, girata in un’unica sequenza. Quella del long take resta per i due registi la tecnica prediletta nel girare l’azione fisica (ed è incredibile come la tecnica per celare un piano sequenza sia sempre quella da Nodo alla gola a oggi), grazie soprattutto alla perizia degli stunt coordinati dall’action director Yannick Ben e dal coordinatore Slavisa Ivanovic, ai quali si deve una coreografia a due, proprio in quel finale, che ricorda i bei tempi della New Wave Action di Hong Kong.

Senza spostare di un centimetro il discorso narrativo e stilistico relativo al genere e ai prodotti precedenti, Citadel: Honey Bunny si discosta in meglio dalla serie USA e da quella italiana proprio per la scelta di non delegare tutto all CGI e a un immaginario stantio, cercando nel racconto e nella messinscena il lato umano, il tocco mélo che nel cinema indiano (in lingua hindi, in questo caso), è così caratteristico. Ambienti, colori e situazioni non devono fingersi anonimamente internazionali, ma cercano di non perdere il proprio specifico, anche se poi, andando al sodo, resta l’impressione di una certa medietà. Per lo meno, il sentore di “vorrei ma non posso” resta in disparte. Per fortuna.

Conclusioni

6.5 A misura d'uomo

Senza eccedere nei toni e nelle immagini, come fa irresistibilmente il cinema di Bollywood, Raj & DK confezionano una Citadel che punta all'azione umana. Una serie che guarda al dramma personale e a luoghi semplici e riconoscibili senza cercare il trionfo, ma anche senza vendersi all'omologazione dell'immaginario.

  • Voto Screenworld 6.5
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La rivista del Cinematografo e Il sussidiario, collabora con vari siti internet, quotidiani e riviste, cura programmi radiofonici, rassegne e festival cinematografici. Ha pubblicato saggi, in opere come Il cinema di Henri-Georges Clouzot (a cura di Stefano Giorgi, Il foglio) e Il cinema francese negli anni di Vichy (a cura di Simone Venturini, Mimesis), e monografie come Beautiful Freak. Le fiabe nere di Guillermo Del Toro, Blue Moon. Viaggio nella notte di Jim Jarmusch e Bigger Boat e Blinded by the Light dedicato a Steven Spielberg per Bakemono Lab. Dal 2016 è membro della Commissione di selezione della Mostra del Cinema di Venezia, dal 2019 è socio della Rete degli Spettatori con cui organizza rassegne cinematografiche e progetti culturali volti alla diffusione del cinema di qualità e indipendente, nelle sale, in streaming, nelle scuole.