Dopo poco più di due decenni dalla sua uscita, è tornato il momento di parlare di The Wire, un progetto brillante che ha cercato di portare sotto i riflettori il lato oscuro degli States. Sicuramente il nostro non è un pensiero originale. Non siamo gli unici ad esserne stati conquistati. Come noi in molti altri sono caduti nell’incantesimo del prodotto di David Simon targato HBO, tant’è che i Griffin non si sono dimenticati di prenderci in giro in una famosa gag in cui la serie è rimasta coinvolta insieme a Breaking Bad.
Detto ciò, sì. Lo confermiamo. The Wire è un prodotto validissimo e adesso vediamo il perché. La serie nel suo complesso non ha goduto di un importante successo in termini di premi, ma non importa, perché se approcciata con il giusto spirito sarà in grado di guidare lo spettatore in un viaggio unico.
Città di Baltimora
The Wire è una serie composta da 5 stagioni che affrontano Baltimora intrecciando una fitta trama di eventi che porterà lo spettatore ad osservare la città del Maryland sotto diversi punti di vista: la criminalità di strada, la tossicodipendenza, la precarietà lavorativa, il sistema scolastico ed infine i media ed il loro ruolo nel gioco pubblico. In effetti non esiste un vero personaggio principale, sicuramente alcuni sono più importanti di altri, la lista sarebbe piuttosto lunga, quindi opterei per suggerirne qualcuno, come McNulty e gli altri poliziotti, Avon Barskdale e Stinger Bell, Marlo Stanfield oppure i miei preferiti, Omar Little e Bubbles.
La vera protagonista della serie è Baltimora stessa, è lei l’elemento intorno a cui gira tutto quanto. I personaggi vanno e vengono a seconda del momento che la storia sta affrontando. Un personaggio come McNulty, per esempio, centrale nelle prime fasi, tende praticamente a scomparire per due stagioni, per poi riemergere in maniera dirompente in quella finale. Omar e Bubbles, invece, non risultano mai (o quasi) i protagonisti del momento, eppure le loro azioni saranno fondamentali per lo sviluppo della storia. Insomma, possiamo dire che The Wire è un tentativo di ricostruire l’anatomia di una città divorata da una spaccatura interna che vede da un lato una maggioranza di popolazione nera e povera, mentre dall’altro una minoranza bianca nettamente favorita a livello economico.
Questa enorme differenza è figlia della storia della città, che nasce nel 1729 dalla necessità dello Stato del Maryland di ampliare l’apparato portuale già presente ad Annapolis. Così, Baltimora divenne un importante polo economico tant’è che durante il XIX secolo fu coinvolta da forti flussi migratori provenienti sia dall’estero che dagli Stati del Sud (quest’ultima coinvolse principalmente afroamericani in fuga). Ad imporre una definiva segregazione razziale interna alla città contribuì la cosiddetta West Ordinance del 1911 che decretava l’impossibilità a persone bianche e nere di vivere nelle stesse zone, impedendo ai cittadini di un’etnia di acquistare abitazioni nei territori dedicati all’altra. Nonostante l’incostituzionalità della legge e la sua successiva abrogazione, la segregazione perseguì e si acuì a partire dagli anni ’60 del ‘900 con il white flight che portò una grossa fetta della popolazione bianca ad occupare i sobborghi della città, a cui seguì l’esodo della classe media nera.
Quest’insieme di eventi ha portato alla formazione di una città a tre volti, che vede una zona centrale-portuale che pullula di infrasrtutture dedicate allo shopping e all’intrattenimento, una zona suburbana abitata dalle classi più abbienti ed infine un’underclass city abitata prevalentemente da una comunità afroamericana in cui tassi di povertà, disoccupazione e abbandono scolastico toccano livelli stellari.
Oltre a mostrare un enorme gap interno, Baltimora dimostra di essere una specificità rispetto allo Stato di cui è membro, il Maryland. Netta è la differenza sia in termine di reddito medio che di tassi di disoccupazione . Questi aspetti risulteranno centrali all’interno dello sviluppo del lavoro di David Simon.
Cosa di tutto ciò viene rappresentato nella serie? Nella prima stagione viene dipinto il volto dell’underclass city, con le tipiche attività criminali e di spaccio che dominano la zona, elemento che torna centrale nella quarta stagione, andandosi ad amalgamare con il tema della dispersione scolastica e di come il malfunzionamento del sistema sia complice nella formazione di ulteriori disuguaglianze. Nella seconda stagione viene raccontata la crisi lavorativa che colpisce il porto in seguito ad una serie di investimenti necessari ad ampliare l’apparato commerciale della zona e le conseguenti ricadute sulla working-class. La terza e la quinta stagione, invece, si concentrano meno nel ritrarre le vie cittadine: se la terza stagione si impegna a fornirci un ritratto fedele della difficltà di rinnovare un sistema politico deficitario, la quinta ci insegna quanto sia fondamentale il ruolo dei media nella costruzione dell’immagine di una città e quindi sulla gestione delle politiche interne.
Già a partire da questo dipinto della città è intuibile la moltitudine di temi che la serie si impegna ad affrontare e che coinvolgono in generale Baltimora. Probabilmente non basterebbe un articolo solo per affrontarli tutti in modo corretto e completo, pertanto nei prossimi paragrafi tenterò di proporre alcuni argomenti in grado di regalare spunti interessanti.
Una serie realistica
The Wire è un prodoto apertamente basato su un vasto insieme di teorie sociali. Come ogni tesi sociale che si rispetti, non esiste una verità assoluta, pertanto, in seguito alla pubblicazione della serie si è aperto un vasto dibattito rispetto a quanto realistica fosse l’opera di David Simon. In particolare, la serie si concentra su un approccio spazialista allo studio dei quartieri, nato in seguito alla scoperta che nei quartieri svantaggiati era costante l’alta presenza di indicatori correlati alla segregazione razziale, alla criminalità, alle famiglie monoparentali, a bassi livelli di istruzione e ad un’inferiore aspettativa di vita, la cui interconnessione andava a creare una concentrazione spaziale dello svantaggio sociale. Alla luce della presentazione della città di Baltimora fatta in precedenza è facile immaginare quanto certi meccanismi siano presenti nel luogo in cui viene ambientata la serie.
Senza perdersi troppo all’interno delle varie teorie che si sono seguite negli anni, è utile dire che tale approccio è stato arricchito da una serie di visioni, talvota contrastanti, che hanno portato ad un’interpretazione rappresentata anche in The Wire. Innanzitutto, si può dire che uno dei pilastri di questa teoria sia l’importanza delle forze strutturali nell’influenzare le vite di chi abita determinate zone delle città; tra queste rientrano tutte quelle difficoltà legate al razzismo e alla stigmatizzazione, all’abbandono da parte delle istituzioni o alla mancanza di lavoro ed istruzione. Questi aspetti emergono all’interno della serie in diversi momenti, partendo dalla rappresentazione fisica dei luoghi di spaccio e vita di molti giovani afroamericani, marcati da un forte senso di abbandono e mancanza di decoro in grado di far immergere lo spettatore in un profondo senso di trascuratezza e disagio. Nella serie è costantemente presente il desolato paesaggio di Baltimora Ovest, come nella scena in cui pestano Bubbles che qui ripropongo.
E’ proprio all’interno di questo contesto di abbandono istituzionale, esposizione alla violenza e scarsità culturale che si forma un terreno molto fertile per la proliferazione della cultura della povertà. Un tipo di impostazione al mondo difficilmente scardinabile e che non dipende dall’esclusiva povertà in senso materiale, economico. La cultura della povertà si concretizza per un’opposizione talvolta consapevole alla cultura “bianca” dominante, nonché per una forza di omologazione culturale interna, che colpisce molteplici ambiti della vita, a partire dall’abbigliamento, passando per una mancanza di fiducia nelle istituzioni e in chi le rappresenta (polizia in primis) ed infine toccando altri valori quali l’omertà, l’imposizione nei confronti altrui ed un importante attaccamento emotivo al quartiere di provenienza.
La difficoltà nell’intervenire su situazioni simili è rappresentata dal fatto che gli abitanti, fin da bambini, assorbono questi atteggiamenti, divenendo così impreparati nello sfruttare eventuali e future opportunità che possono incontrare nella vita. Un modo di approcciarsi, ma anche, in un certo modo, di sentirsi approcciato dalla vita che non regala via di scampo. La serie lavora molto su questo aspetto e il tema emerge in molteplici punti chiave della trama. L’anello di connessione tra l’individuo e il mondo che lo circonda è, come in altri contesti (e forse maggiormente vista la scarsa presenza istituzionale), la famiglia. Infatti, nonostante tutte le problematiche accennate fino ad ora, non tutte le persone – e non tutti i personaggi – reagiscono allo stesso modo al contesto di appartenenza. Questo può dipendere sia da una serie di predisposizioni individuali, ma, soprattutto, dalla presenza di un solido apparato familiare. Come si è detto all’inizio di questo paragrafo, uno degli indicatori che spesso risulta incisivo nelle dinamiche dei quartieri svantaggiati, è l’alta presenza di famiglie monoparentali, il chè dovrebbe essere abbastanza rappresentativo del ruolo che la famiglia gioca in questo meccanismo.
In generale, oltre alla trasmissione valoriale, la famiglia ha un ruolo di connessione verso l’esterno. Avere un appoggio che sappia mostrarti che il mondo non finisce a Baltimora Ovest risulta cruciale per evitare di essere assorbiti da un certo tipo di cultura. Al contrario, l’assenza di stabili figure genitoriali, o, ancora peggio, la presenza di figure che ti spingono verso un determinato stile di vita da uomo, basato sulla violenza e sullo spaccio, risultano essere una sorta di condanna. Nella serie nessuna delle famiglie del ghetto mostra un asset equilibrato: Dukie è figlio di due tossicodipendenti che gli vendono i vestiti per comprarsi la roba, D’Angelo ha solo una madre che lo obbliga a non uscire dal giro e a prendersi vent’anni di galera, così come Namond, che ha il padre in prigione e una madre che lo costringe al lavoro agli angoli delle strade.
Proprio la parabola di vita di Namond mostra quanto avere un appoggio durante il periodo di sviluppo sia fondamentale per il proprio destino. Infatti, a seguito di una serie di eventi, il ragazzo entra nelle simpatie dell’ex capo della polizia Colvin che deciderà di prenderlo sotto la propria custodia e farlo trasferire a casa sua, dandogli la possibilità di frequentare una scuola migliore, ma soprattutto di scoprire il mondo che esiste al di fuori del ghetto. Nello spaccato che segue viene rappresentato il dialogo tra l’ex agente e il padre di Namond, con il primo che chiede al secondo di affidargli il figlio.
Insomma, il punto di tutta questa discussione è che, senza voler cadere nel predeterminismo, nascere all’interno di uno specifico contesto di privazioni influisce, e non poco, sulla formazione e quindi sullo sviluppo delle persone. Detto questo, non tutti reagiscono nella stessa misura. Ai fattori strutturali e inevitabili, si aggiungo una serie di variabili fatte di sostegno da parte della famiglia, narrazioni intergenerazionali, percorsi biografici e predisposizioni personali che comportano un’eterogeneità tra gli sviluppi di vita dei singoli individui. Il punto che mi preme sottolineare è che non esiste una verità assoluta. L’ambiguità regna sovrana e a dominare è l’ambivalenza di tutti i personaggi coinvolti: sentimenti di umanità si mischiano ad ingiustizie subite, mancanza di prospettive e una grande rabbia da sfogare. Ogni personaggio fa sua la legge della strada e la interpreta a proprio modo, alle volte sbagliando e altre facendo la cosa giusta. Non esistono eroi, non esistono cattivi. Esiste solamente un gruppo di disperati che cerca di rimandare a domani l’ora in cui fare i conti con sè stesso.
Contro il self-made man
Della rappresentazione che The Wire propone della vita di quartiere è stato criticata la mancanza di speranza generale che la serie lascia intravedere. Su questo, c’è poco da dire. In effetti l’ottimismo non fa parte del suo vocabolario, abbastanza espressivo a riguardo è il finale di serie che mostra come – sia in strada che nelle istituzioni – una volta intervenuti su un problema, esso è pronto a riprodursi. Sempre e comunque.
Rimanendo sul tema di strada, però, non sappiamo quanto la critica sia valida, infatti la serie mostra che una soluzione, magari non sistemica ma individuale, esiste. Quello che credo abbia scosso molto il pubblico occidentale, e in particolare negli US, sia la peculiarità del prodotto di negare con tutto sè stesso la retorica del se vuoi, puoi, del self-made man tipico del sogno americano. La verità è che per “farcela” non basta la sola buona volontà: buttare la discussione sulla mera mancanza di voglia di fare o di lavorare è un’assoluta semplificazione del problema. The Wire, invece, nel problema ci si lancia a capofitto, mostrando tutte le contraddizioni umane che caratterizzano determinati percorsi, fatti di tentativi andati a vuoto, scelte sbagliate ed alti e bassi. In generale questo tipo di narrativa rappresenta la realtà di tutti, non solo degli abitanti dei quartieri poveri, anche se quest’ultimi sono più coinvolti di altri.
Reginald “Bubbles” Cousins
Il personaggio di Bubbles è, in quest’ottica, uno dei più rappresentativi. Bubbles è in primis una persona molto intelligente e scaltra e, in secondo luogo, un tossicodipendente di prima categoria. Il suo personaggio sarà piuttosto importante durante tutte e cinque le stagioni, in quanto gioca un ruolo fondamentale durante molte indagini portante avanti nella serie grazie al suo ruolo di informatore. Inoltre, entraranno nella trama varie vicende che lo colpiranno personalmente.
Alla fine della serie Bubbles ce la fa, esce dal tunnel delle droghe, ma ci vorranno ben cinque stagioni prima di vederlo avere successo davvero. La sua è una storia di sopravvivenza, di tentativi andati bene e molti andati peggio. Già a partire dalla prima stagione Bubbles accenna la sua stanchezza rispetto allo stile di vita che porta avanti, nonché alla volontà di uscirne. La prima volta fallisce perché non riesce a scappare fisicamente dalla sua prigione. Per qualche giorno riesce anche a stare pulito, ma tutto e soprattutto tutti, intorno a lui, gli ricordano costantemente che è un tossico, niente di più, niente di meno. E così ci ricasca. Sarà solo un evento tragico, un evento che gli farà toccare il fondo, a dargli la forza di riemergere. Sarà il sostegno umano datogli dal gruppo di sostegno in cui entra ad aiutarlo, il supporto del suo sponsor, la fiducia datagli con il contagocce dalla sorella, a sostenerlo durante il suo percorso. Un percorso che non coinvolge solo il suo rapporto con la droga, ma coinvolge tutta la sua identità, il dolore e la vergogna che ha covato per anni. Un percorso avvenuto per caso, figlio di una disgrazia. La volontà è importante, ma non è l’unica cosa che conta.
Duquan “Dukie” Weems
Al contrario, la storia di Dukie ci mostra quanto la mancanza di una appiglio esterno giochi un ruolo fondamentale nel creare le condizioni in grado di portare alla caduta di un uomo. Dukie è, come accennato in precedenza, figlio di una coppia di tossicodipendenti che lo costringono a vivere in uno stato di semi-abbandono. Niente acqua corrente, niente cibo, nessun intervento da parte della scuola o dei servizi sociali, nulla. Dukie viene risucchiato dal vortice della strada. Anche lui è un ragazzo intelligente e sensibile, che pecca a livello di temperamento. Non è aggressivo, non cova quella rabbia interiore necessaria alla vita da strada. Non si impone, non picchia, spesso viene picchiato. La strada non fa per lui, tutti gli chiudono la porta in faccia, non è abbastanza cattivo per spacciare all’angolo, non è abbastanza grande per un lavoro vero, non è abbastanza ricco per andare a scuola. Così non gli rimane che rifarsi agli unici luoghi senza requisiti d’accesso, agli angoli, ma non come venditore, bensì, come consumatore.
Dukie è la prova vivente che non sempre è una questione personale, a volte è solo questione di abbandono. A volte è questione di essere soli al mondo senza nessuno che possa indicarti la via.
Quindi sì, in un certo senso la serie mostra uno spaccato piuttosto cinico della vita di questi ragazzi, ma ciò non significa che sia sbagliato. Se la realtà che si sta riprendendo è cinica, la scelta giusta diventa descriverla per quello che è.
The Wire, oltre al ghetto
Fino ad ora ci siamo concentrati ad analizzare le tematiche che ruotano intorno alle dinamiche dei quartieri svantaggiati perché risultano centrali nello sviluppo di tutte e cinque le stagioni. Possiamo dire che il ghetto è il fil rouge di tutto il percorso. Come già accennato nell’introduzione, i temi non si esauriscono alla povertà e alla criminalità, bensì spaziano andando a toccare una moltitudine di aspetti che al momento è impossibile affrontare integralmente ma che comunque meritano un accenno.
Il secondo macro-tema della serie è, oltre al ghetto, il mondo politico e il suo funzionamento. Ci vengono mostrate le dinamiche che determinano la riuscita o meno del sistema amministrativo. Un sistema marcio, dirottato continuamente da capricci personali dei politici coinvolti. La serie dipinge una realtà pubblica sconcertante, nella quale a dominare non è la giusta scelta ma l’individualismo degli attori. Un atteggiamento che evidenzia ancora di più una tendenza in ascesa in tutto il mondo occidentale per la quale ciò che è di tutti, in realtà è di nessuno. Rispetto a questo, la serie non risparmia nemmeno l’ambiente giornalistico, nel quale la verità, che a suo modo è un bene pubblico, assume un ruolo in secondo piano quando entrano in gioco premi e percorsi di carriera individuali.
Un secondo aspetto molto interessante che si intreccia insieme all’individualismo nel creare una macchina amministrativa totalmente inefficiente è l’utilizzo spasmodico delle statistiche. Attenzione, non vogliamo dire che le statistiche non vadano considerate, ce ne siamo avvalsi noi stessi durante tutto il ragionamento, il fatto è l’utilizzo che se ne fa: capire dove si collochi il confine tra l’usare le statistiche per programmare le politiche pubbliche e programmare le politiche pubbliche per raggiungere le statistiche desiderate. Lampanti nella serie sono i riferimenti ad un applicazione impropria sia nell’ambito della gestione del crimine, che nell’istituzione scolastica.
Un ultimo spunto incredibilmente interessante è legato alla seconda stagione che vede la crisi dei portuali. La tematica viene affrontata solo di sbieco durante lo spazio dedicatagli, ma in verità la materia coinvolge una realtà più attuale che mai, strettamente legata ai processi di de-industrializzazione che stanno colpendo tutto l’occidente da ormai qualche decennio e che miete vittime tra tutti quei lavoratori non specializzati che rischiano di trovarsi alle strette. The Wire non si dimentica di queste conseguenze, e, nonostante non approfondisca direttamente il tema nelle stagioni successive, nella quinta ci mostra un Nick Sobotka piuttosto nervoso nei confronti di un sindaco Carcetti intento ad inaugurare una nuova area commerciale nella zona portuale.
Non ci illudiamo di aver scoperto il fuoco con certe rivelazioni, anzi. Molti degli aspetti che abbiamo appena denunciato sono ben visibili sotto gli occhi di tutti e tra la difficoltà di intervenire puntualmente e un po’ di sano menefreghismo generale, essi continuano a riprodursi incessantemente nella nostra società. Il punto di forza reale di The Wire è la capacità di sbatterteli in faccia per quello che sono. Niente di giri di parole, niente eroi, niente cattivi. Niente di niente. Solo un sistema organizzativo e valoriale che sta palesando i propri limiti.
Quindi sì, The Wire è qualcosa di più di una semplice serie. Oltre a mostrare una faccia oscura del nostro sistema, lo fa alternando momenti seri e complessi a momenti più leggeri, ritraendo spezzoni di vita privata e grandi sbornie (quanto bevono gli irlandesi?), il tutto condito da una buona dose di linguaggio scurrile che non guasta mai. A tal proposito, sono entrati nella storia i tre minuti di pura follia contenuti nell’iconica Fuck&MF scene. Insomma, perché non riscoprirla?
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