A qualche giorno dal debutto di House of the Dragon , il nuovo show HBO tratto dall’opera di George R.R. Martin, abbiamo ancora sotto la pelle una scena particolarmente disturbante: lo strazio di una donna che esiste solo come pedina e fattrice per dare un erede al marito. È forse l’occasione per fare una riflessione sulla rappresentazione della violenza di genere, tema controverso e già ampiamente discussa al tempo de Il Trono di Spade.
Oltre dieci milioni di abbonati HBO hanno visto, la scorsa settimana, l’episodio inaugurale dell’atteso erede de Il trono di spade, House of the Dragon. Abbonati avvezzi, come gli altri milioni di spettatori di ogni angolo del mondo che hanno seguito con il cuore in gola le vicende degli Stark e dei Lannister fino a tre anni fa, alla brutalità che caratterizza il mondo immaginato da George R.R. Martin nelle sue Cronache del ghiaccio e del fuoco.
Eppure, anche questa volta, c’è chi dichiara che si è passato il segno, puntando il dito su una scena oggettivamente atroce e denunciando eccessi cercati, presumibilmente, per far parlare dello show e per incontrare gli appetiti più bassi del pubblico televisivo.
Seguono spoiler sui primi due episodi.
Il destino di Aemma
Parliamo ovviamente della scena per la quale HBO si è sentita in dovere di scusarsi per l’assenza di un avviso, o trigger-warning; quella che vede uscire di scena, in maniera sanguinosa e raggelante, la regina Aemma Arryn, consorte di Viserys I Targaryen e madre della giovane e fiera principessa Rhaenyra. Sin dalla sua primissima apparizione in questo episodio inaugurale, la regina appare duramente provata dalla sua ultima gravidanza, arrivata oltre tutto dopo una serie di aborti e morti in culla che, assieme al senso di fallimento per non aver dato a Viserys un figlio maschio, l’hanno logorata nella mente come nel corpo.
Eppure Aemma accetta il suo ruolo e il suo destino: dice anzi alla figlia che la gravidanza e il parto sono il campo di battaglia delle donne, il luogo dove mostrano il loro coraggio e il loro valore, e offrono il loro contributo al reame e alla famiglia.
Aemma è, come erano personaggi come Catelyn e Sansa all’inizio de Il trono di spade, una creatura pienamente figlia del suo mondo, prodotto di una cultura patriarcale che non ha alcuna possibilità di mettere in discussione, come forse accadrà a Rhaenyra. D’altro canto, la stessa Daenerys Targaryen nella prima stagione di Game of Thrones aveva abbracciato l’essere madre come unica possibile via di riscatto e di agency che le si presentava.
Per quanto atroce sia il destino di Aemma, quindi, non c’è nulla di sorprendente o anomalo in esso. È il destino di tutte le donne della storia prima che fosse offerta loro la possibilità di gestire il proprio corpo. Non c’è sadismo in Viserys (pensiamo al sadismo di Ramsay Bolton quando si appresta a torturare Sansa Stark, ma ne parleremo più avanti) quando decide di fare macellare la moglie nella speranza di salvare l’agognato erede maschio: la sofferenza del re nel sacrificare Aemma, tuttavia, non sminuisce la violenza di un sistema che disumanizza e calpesta le donne. Una violenza che Martin e gli autori di HBO scelgono di rappresentare senza remore perché è parte della verità umana che raccontano.
Uomini… e donne
L’essere umano è l’uomo. La donna è il secondo sesso; la serva e l’accessorio; l’amante e la fattrice. Se le dice bene, la complice. Questo, amici, non è il mondo di Martin: è il nostro. Ignorare la subordinazione e violenza contro le donne, in un racconto che ha l’ambizione di rappresentare il fascino e le insidie del potere (perché questo fa il fantasy: ci mostra la realtà in una prospettiva diversa per gettare nuova luce su questioni concrete e reali), equivarrebbe a ignorare un elemento fondamentalmente umano e falsare del tutto la nostra esperienza del mondo.
Così è “necessario” mostrare lo strazio della madre per preparare il campo alle gesta della figlia. Per attuare il cambiamento dobbiamo sapere bene cosa c’è da cambiare: conoscere le nostre madri, vissute nell’ombra dei nostri padri. La gloria di Daenerys, di Rhaenyra, di Arya, di Sansa, passa per il dolore e il sangue di Aemma, di Catelyn, di Rhaella, di Cersei.
C’è, nell’opera di Martin, comprensione e compassione dell’esperienza femminile che bilancia e centra la brutalità: e c’è ammirazione, infinita ammirazione, per le donne che riescono, contro ogni logica, ad alzare la testa, spiegare le ali, rompere le catene. E fermare la ruota.
Il caso di Sansa Stark
Le violenze subite da Sansa a Grande Inverno durante il matrimonio-prigionia con il bastardo di Bolton sono state al centro di infinite polemiche per l’intero corso delle ultime stagioni di Game of Thrones. Lo shock fu amplificato a causa dell’elemento non poco rilevante rappresentato dalla scelta di fare subire a Sansa un destino che nei libri di Martin toccava a un personaggio secondario, ma ne seguirono osservazioni non prive di merito sull’importanza di dare spazio all’elaborazione del trauma e sull’uso dello stupro come elemento di mero avanzamento narrativo. Osservazioni e ragionamenti di cui abbiamo fatto tesoro e sulla base delle quali costruiamo discussioni e nuovi spunti di riflessione.
Resta l’evidenza che Ramsay Bolton è l’incarnazione della misoginia (la massima degradazione che si può infliggere a un uomo è l’evirazione: Theon Greyjoy diventa Reek, un subumano senza nome e identità); da questo è derivata, diciamocelo, la profonda soddisfazione di fronte alla sua rovina e alla sua morte. Per portare a quella soddisfazione, bisognava mostrare chi fosse davvero Ramsay.
Per raccontare il trionfo delle donne-drago di Martin, bisogna conoscere l’inferno da cui devono liberarsi.
Ma è davvero necessario mostrare tutto?
Se siete qui a leggere, siete menti curiose, pensanti, critiche e sapete già che la risposta breve a questa domanda è no. Il The Sandman di Netflix ci ha mostrato di recente, con il sotto-episodio Calliope, che si può parlare nella realtà dello stupro senza mostrarlo. Una scelta che però l’episodio sconta un po’ dal punto di vista dell’effetto drammatico, perché si parla di una violenza, di una sofferenza e di una profanazione che bisogna immaginare ex novo perché il senso del racconto possa risuonare in noi.
Quella di Martin, di Benioff e Weiss per Game of Thrones, per il nuovo team di House of the Dragon è una scelta più sfrontata e meno pudica, che ci induce, come è giusto che sia, a riflettere su cosa cerchiamo quando guardiamo prodotti audiovisivi drammatici ad alto tasso di sesso e violenza.
Possiamo cercare di rispondere guardando alla nostra vita e alle nostre esigenze. Forse nella vostra vita, come in quella di chi scrive, ci sono abbastanza gioia e abbastanza risate da non sentire alcun bisogno di guardare commedie. Forse abbiamo un’altra fame: quello che ci serve è un’esperienza totale e ruvida dell’esistenza, che ne abbracci anche le brutture, perché vogliamo, per quanto possibile, affrontarle e conoscerle. Consapevoli che il cambiamento passa (anche) per le lacrime, per il sangue, e per le storie.
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