Nel caos di pietre miliari che hanno vissuto una seconda giovinezza attraverso lo streaming, Sons of Anarchy è rimasta spesso in penombra, lontano da certi clamori. Eppure, al netto di una popolarità meno imperante rispetto ad altri colossi del piccolo schermo, l’opera magna di Kurt Sutter è riuscita a imporsi nel cuore di molti. Un legame, quello creato con il pubblico della serie, che a distanza di 10 anni è ancora oggetto di studio: con 7 stagioni, 92 episodi, la tragedia dei SAMCRO ha lanciato interpreti, autori e personaggi tracciando una rotta chiara ed evidente. Un lampo di genio cristallizzato nelle crepe di una perla grezza, nata da un istinto teatrale e portata in scena come un romanzo dalle mille sfumature.
A detta di molti, il periodo di transizione verso lo streaming moderno ha rappresentato uno dei momenti qualitativamente più puri e alti dell’intera storia recente dei media. In un contesto in cui le idee riuscivano per le prime volte a brillare all’ombra del Cinema, Sons of Anarchy ha potuto contare su una “famiglia” di appassionati. Quella dei SAMCRO (Sons of Anarchy Motorcycle Club, Redwood Original) è un’epopea chiarissima sin dalle prime scene, un dramma tutt’altro che originale – eppure in grado di stupire tanto come atlante simbolico quanto come sineddoche esistenzialista. Un dramma moderno, sorretto da un’iconografia ben precisa, che sfreccia fra i suoi legami in un’esaltazione motociclistica della vita (e del destino) criminale.
Nell’ascesa e nel declino del loro eroe dannato, Sutter e soci hanno saputo catturare lo spettatore come solo le grandi opere sanno fare. L’anima di Sons of Anarchy non nasce solamente dall’empatia: è una questione di fede.
L’asfalto nelle vene
Le vette emotive raggiunte dalla serie (al suo apice) rappresentano ancora oggi uno standard per chiunque intenda approcciarsi a un serial corale. I personaggi di Sutter non sono semplici caratteri: ciascuno di essi porta nel cuore i ranghi dei SAMCRO, rendendo lo spettatore testimone inerte di rapporti e gerarchie sentiti con lo stesso ardore dei suoi membri. Chi agisce si lega a chi osserva, compiendo un duplice miracolo: fidelizzazione assoluta prima, distacco giudicante poi. Il viaggio di chi osserva procede di pari passo con quello del protagonista, costretto a schierarsi per occupare il proprio posto nel grande disegno della morte.
Immergersi nell’universo di Sons of Anarchy è un’esperienza talmente intensa da farsi quasi reale nelle sue conseguenze – peggio: indelebile. L’ambiente criminale, dalla superficie, si sposta quasi sullo sfondo: a emergere sono conflitti tra menti (e cuori) mossi da fede e valori all’apparenza incrollabili. L’umanità domina la scena, permettendo ai SAMCRO di scardinare il mito dell’uomo imperturbabile in una parabola nera sulla percezione del controllo. Dietro la facciata dei bikers si celano anime erranti in un labirinto di incroci, guidate dai sentimenti in una strada senza uscita – una corsa eterna in cui i legami su due ruote sono più stretti di quelli di sangue.
Amleto su due ruote
L’eredità rappresenta uno dei concetti più affascinanti della narrazione moderna: dai miti alle tragedie, il peso del sangue ha contribuito alla nascita dei più grandi antieroi drammatici. Non è un caso che Jax Teller sia a tutti gli effetti un Amleto moderno: Sons of Anarchy ha portato Shakespeare sull’asfalto, assecondando la danza dei dissapori interni per guidare personaggi e pubblico in un viaggio verso la verità più profonda. La grande allegoria del fato avverso trova però la sua summa nelle radici nordiche che ispirarono persino il grande drammaturgo: ogni uomo è il risultato di ciò che ha fatto in vita e nessuno può sfuggire al proprio destino.
La figura della mietitrice (onnipresente fra simbolismi, sfumature e controparti terrene) si fa centrale per l’intera opera: lo spettro di un fato ineluttabile aleggia sulla famiglia dei SAMCRO, stretta nella propria unione da una ribellione in cui la morte si fa minaccia, compagna e infine soluzione. La serie raggiunge il suo finale iconico al culmine di un contrasto fra individualismo e anarchia, due forze opposte che solo insieme riescono a rivoluzionare il dramma esistenziale, portando a una libertà assoluta. L’ultima corsa di Sons of Anarchy non è una fuga, ma un testamento: lontano dai traumi del passato, dai dolori del presente e dai dubbi del futuro, l’abbraccio della mietitrice sovrasta il peso dell’eredità.
“He’ll make you King”
Non c’è timore nella fine di Sons of Anarchy. L’accettazione della propria perdita è la soluzione salvifica, l’ultimo passo verso l’oblio e il primo (vero) contatto con l’ineffabile. Il protagonista di Kurt Sutter è de-cristizzato dalla sua sofferenza: Jax, da eroe predestinato, perde il controllo tra fedi malriposte e responsabilità opprimenti – lo stesso fato riservato ai grandi antieroi del piccolo schermo, elevato qui da un’uscita di scena magistrale. Sons of Anarchy ha saputo mostrare il declino come Breaking Bad o Gomorra, trovando però una vera catarsi per spezzare il suo ciclo maledetto.
Dalla fede si è partiti e con la fede si chiude: l’esperienza del prescelto Jax può risolversi solamente attraverso il sacrificio (per donare la pace, come in croce), accogliendo l’ombra da cui è fuggito per tutta la vita – o, come dice la canzone finale, joining the murder. Se davvero il piccolo schermo può concedere piccoli frammenti di eternità fra i suoi cupi riflessi, questo finale iconico è forse l’unico caso in cui quella forza “superiore” si è percepita davvero – con le braccia aperte al cielo e il cuore che sfreccia ancora per le strade di Charming.
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