La prima cosa che si nota guardando i minuti iniziali di We Own This City, sono i nomi di David Simon e George Pelecanos. Due nomi quasi leggendari per chiunque ami il genere poliziesco, due nomi che fa sempre un certo effetto rivedere insieme nei titoli di testa di una serie TV. Solo negli ultimi anni con The Deuce e Treme hanno dimostrato come sia possibile realizzare serie di culto e di grandissima qualità partendo dai soggetti più disparati – come le conseguenze dell’uragano Katrina a New Orleans o la nascita dell’industria pornografica nella New York degli anni ’70 – ma è soltanto andando indietro di vent’anni che diventa evidente il perché questi due nomi, assieme, rappresentino davvero il non plus ultra del mondo seriale statunitense.
The Wire, la serie che ha segnato la prima collaborazione del duo nel 2003, è ancora oggi considerata una delle migliori serie mai esistite: una serie che avuto il coraggio e l’ambizione di tracciare ed evidenziare quel filo quasi invisibile tra la criminalità e le varie istituzioni della città di Baltimora. E lo ha fatto proponendoci personaggi amatissimi e leggendari che facevano parte sia della fazione dei criminali che di quella dei poliziotti. Lo ha fatto senza mai costringerci a “scegliere”, ma semplicemente mostrandoci come gli uni dipendessero irrimediabilmente dagli altri.
Oggi, nel 2022, arriva una nuova serie HBO, sempre firmata Simon & Pelecanos, tratta da un libro inchiesta di Reinaldo Marcus Green, sempre girata a Baltimora e sempre ambientata nel modo della criminalità e delle forze dell’ordine. In parte anche recitata da interpreti storici della vecchie serie. Facile pensare, quindi, che possa essere a tutti gli effetti un sequel di The Wire. In questa recensione di We Own This City vi spiegheremo invece perché non lo è.
We Own This City – Potere e corruzione
Genere: drammatico, poliziesco
Durata: 6 episodi/60 minuti ca.
Uscita: 28 giugno 2022 (Sky e in streaming su Now)
Cast: Jon Bernthal, Wunmi Mosaku, Sydney Lemmon
La trama: la polizia di Baltimora, Freddie Gray e lo scandalo del 2017
Nonostante non siano mancate negli anni molte controversie, il lavoro di David Simon nel ritrarre l’operato della polizia e le enormi difficoltà di stare sul campo in una delle città con il maggiore tasso di criminalità di tutto il paese è sempre stato molto apprezzato. Perfino dagli stessi poliziotti. Sia in The Wire che nel precedente Homicide: Life on the Street (tratto dal libro autobiografico di Simon) venivano sì mostrati diversi livelli di corruzione, ma fondamentalmente i poliziotti erano comunque in gran parte i protagonisti positivi delle due serie, con molti personaggi che brillavano per onestà e umanità.
Con We Own This City le cose cambiano radicalmente, semplicemente perché Simon e Pelicanos in questo caso non devono e non possono inventare quasi nulla, ma si limitano a raccontare quanto realmente emerso in seguito all’arresto del 2017 di otto agenti della Gun Trace Task Force, un’unità operativa che avrebbe dovuto occuparsi di rintracciare e togliere dalle strade le armi illegali e di contrabbando, ma che invece è stata prima accusata e poi condannata per crimine organizzato, furto, estorsione e frode. Tutto questo specialmente in comunità black, all’alba della “misteriosa” morte di Freddie Gray: per chi non lo ricordasse, Gray era un giovane 25enne che morì pochi giorni dopo essere stato arrestato dalla polizia di Baltimora; questo episodio non solo contribuì fortemente alla crescita del movimento Black Lives Matter ma portò a violenti proteste in tutta la città.
Il filo si intreccia, e poi si spezza
Con queste premesse risulta quindi evidente che qui non siamo e non possiamo essere dalla parte di The Wire. Il filo che unisce i (micro) criminali alle istituzioni e alle forze dell’ordine è già bello che spezzato. Dalla corruzione che circonda la polizia, ma anche dal contesto storico e sociale già incrinato dai fatti di cui sopra. Il grande fascino di We Own This City è comunque quello di riuscire a mostrarci non solo quanto avvenuto attorno a queste figure poi condannate, ma la pressione che su ognuno di loro è stata esercitata fin dall’inizio, dall’intero sistema. Questo percorso non lineare è evidente soprattutto nella figura del Sergente Wayne Jenkins (interpretato da un fantastico Jon Bernthal), che vediamo fin da subito come l’elemento più marcio della task force. Attraverso però molteplici flashback abbiamo modo di andare a fondo anche in quello che è il suo percorso e capire come il problema sia evidentemente ben più radicato e certamente non frutto di singole mele marce.
Se il valore di quel che ci racconta We Own This City è indubbio e indiscutibile, si potrebbe però quantomeno discutere del come lo racconta: perché proprio l’utilizzo dei tanti flashback, la frammentazione del racconto e il continuo passaggio tra una storia e l’altra, un personaggio e l’altro, rendono la visione della serie certamente difficoltosa. Forse addirittura ostica per chi non è (più) abituato ad un certo tipo di narrazione e scrittura. Se anche The Wire non è mai stata una serie particolarmente semplice nella sua fruizione – motivo per cui, pur essendo oggi considerata una delle migliori di sempre, non ha mai ricevuto nemmeno una singola nomination ai premi principali – questa We Own This City richiede ai suoi spettatori uno sforzo ed un’attenzione ancora maggiore. Ma si tratta di uno sforzo che vale davvero la pena fare, proprio perché non ci troviamo davanti al sequel di un capolavoro. Ma perché siamo di fronte ad una terribile realtà.
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La recensione in breve
We Own The City non è un vero sequel di The Wire, nemmeno spirituale. Ma una ricostruzione fedele, e per questo terribile, di uno scioccante caso di corruzione del 2017. Una serie che ci mostra quanto è marcio il sistema e quanto sia sempre più necessario un cambiamento, a partire già dalle forze dell'ordine. Una serie difficile da digerire e anche da seguire, ma che merita la nostra attenzione.
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Voto ScreenWorld