Finalmente ha debuttato su Netflix Pinocchio di Guillermo del Toro, primo lungometraggio d’animazione diretto dal regista premio Oscar. Una rilettura dark e sorprendentemente matura della fiaba immortale di Carlo Collodi che il cineasta messicano ha presentato con enorme successo di pubblico al London Film Festival e di cui vi parlammo nella nostra entusiasta recensione in anteprima.
Con la realizzazione di questo gioiellino in stop motion, l’autore ha firmato non soltanto uno dei suoi lungometraggi più potenti e riusciti, ma ha completato quella che ad oggi può essere considerata un’ideale trilogia anti-totalitaria iniziata nel 2001 con il sottovalutato La spina del diavolo e proseguita nel 2006 con il capolavoro Il labirinto del fauno. Che con il suo Pinocchio Guillermo del Toro abbia realizzato il film antifascista che tutti forse aspettavamo?
La trilogia antifascista del regista messicano
Non è la prima volta che il regista e sceneggiatore premio Oscar per La forma dell’acqua si cimenta in fiabe oscure ambientate sotto l’egida di regimi totalitari; lo aveva già fatto all’indomani del Nuovo Millennio con l’ottimo La spina del diavolo (2001), per poi proseguire il discorso politico cinque anni dopo con l’acclamato Il labirinto del fauno. Entrambe le pellicole condividevano un setting comune: la Spagna a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, flagellata dal regime fascista e totalitario del Generale Francisco Franco. Uno specchio politico e storico della realtà di ieri e di oggi che sta molto a cuore a del Toro, lui che da sempre è cantore e difensore privilegiato dietro la macchina da presa del mostro inteso non più come minaccia a cui ci ha abituato il cinema di genere del passato, bensì una creatura da comprendere, per la quale provare empatia e senso di umanissima protezione.
In fondo, in tutti i lungometraggi diretti dal regista messicano il dilemma è sempre il medesimo: chi è il vero mostro nella storia, la creatura stessa oppure il crudele essere umano? Una domanda che presuppone una semplicissima risposta per Guillermo del Toro e che ben si sposa con le sue narrazioni crude e fiabesche, sullo sfondo di regimi dittatoriali in cui valori come la diversità, l’anormalità e la disobbedienza vengono messi sistematicamente a tacere.
C’era una volta nell’Italia del Ventennio
Per questo motivo, dopo i più che ottimi tentativi affrontati in La spina del diavolo e Il labirinto del fauno, era questione di tempo che Guillermo del Toro si cimentasse con una delle sfide artistiche più agognate e mercificate di sempre: adattare il Pinocchio di Carlo Collodi alla sua sensibilità e alle sue ossessioni artistiche ed ambientarlo nell’Italia del Ventennio fascista. Un’intuizione assolutamente naturale nell’evoluzione della carriera del nostro, ma che sorprende per efficacia e caustica satira nei confronti del sistema totalitario instaurato da Benito Mussolini. In tal guisa, il burattino di legno creato da Mastro Geppetto si carica di valenza fortemente libertaria, nato dal dolore della perdita di un figlio in carne ed ossa che Pinocchio lo sa, non potrà mai sostituire né imitare.
Proprio a partire dall’intima incapacità (o rifiuto?) del protagonista di riuscire a seguire le orme del compianto Carlo e di riempire il vuoto nel cuore solcato dal lutto di Geppetto, inizia il percorso di Pinocchio come personaggio-emblema di un certo tipo di disobbedienza; certo, non più quella professata dal nostro Collodi, che alla fine del XIX secolo aveva pubblicato una fiaba per ragazzi dal valore fortemente pedagogico e che esaltava le virtù di una buona educazione scolastica e del sacrificio economico in un’Italia che da poco era stata unita.
Disobbedienza civile
A del Toro stavolta interessa mettere in scena un nuovo burattino di legno, un emblema cinematografico rinnovato rispetto alla tradizione dei precedenti adattamenti, che sappia coniugare nella sua forma e nel suo animo valori avversi alla dittatura fascista del tempo. Quindi, più che disobbedire inizialmente agli ordini e ai consigli paterni del babbo Geppetto, Pinocchio si fa portavoce di una vera e propria disobbedienza civile, in barba ad un mondo in cui è nato dove l’amministrazione professa ordine, disciplina e sottomissione ai valori “italianissimi” di casa, chiesa e scuola; una trinità perversa che il sistema fascista usava per piegare al proprio assetto social-culturale le nuove leve della gioventù del periodo.
In questa cornice sinistra, il Pinocchio firmato da Guillermo del Toro continua un discorso politico già ampiamente affrontato nei due lungomentraggi che formano la trilogia antifascista; come per La spina del diavolo e Il labirinto del fauno, il punto di vista del racconto fiabesco è affidato all’occhio trasognato di un bambino in bilico tra fine dell’infanzia ed un passo in avanti verso la maturità dell’adolescenza: il piccolo Carlos del film del 2001 oppure l’intrepida e coraggiosa Ofelia del capolavoro di cinque anni dopo, hanno molto più in comune con Pinocchio di quanto non sembri all’apparenza.
A Mussolini piacciono le marionette
Come i giovanissimi protagonisti sopracitati, anche il Pinocchio di questa inedita trasposizione in stop motion condivide disincanto e temerarietà, atteggiamenti propri e naturali nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza che celano slancio verso la sovversione dei valori del mondo adulto; un mondo, quest’ultimo, che vorrebbe marionette senza cervello anziché teste vulcaniche, creative ed anticonformiste. Un sistema di valori totalitario che il Pinocchio di del Toro sbeffeggia come meglio sa fare alla sua età, tra sguardo tenero e disincantato e una sonora pernacchia al cospetto del Duce.
Per tutte queste ragioni, il film d’animazione targato Netflix funziona alla perfezione quando si tramuta in anarchico grido alla libertà di essere, di pensare, di comportarsi e di amare; un potentissimo inno cinematografico ai valori della gioventù, con la speranza di costruire un società futura più empatica, più inclusiva, più compassionevole. Una società dove non ci sarà più bisogno di marionette governate da fili.