Nel panorama dello streaming, dominato dai colossi Netflix e Prime Video con produzioni come Stranger Things o la saga di Bosch, c’è una piattaforma che spesso rimane nell’ombra ma che ha saputo costruire un catalogo di serie televisive che non temono confronti. Hulu, che presto si integrerà completamente con Disney+, ha prodotto alcuni dei titoli più acclamati e memorabili degli ultimi anni, storie che vanno ben oltre il semplice intrattenimento per toccare le corde più profonde dell’esperienza umana.
Non parliamo solo di show ben confezionati o di produzioni tecnicamente impeccabili. Parliamo di veri e propri capolavori televisivi, serie che hanno ridefinito i confini dei loro generi, che hanno lanciato carriere stellari e che hanno saputo creare conversazioni culturali durature. Dalle distopie che ci mettono di fronte ai nostri peggiori incubi sociali alle commedie gialle che reinventano il mystery, dalle storie d’amore devastanti ai ritratti storici irriverenti, Hulu ha dimostrato di saper scommettere su progetti ambiziosi e visionari.
Mentre la fusione con Disney+ procede, il patrimonio di serie originali Hulu rimarrà accessibile attraverso la piattaforma del colosso di Topolino, garantendo che questi gioielli narrativi continuino a trovare nuovo pubblico. Ma quali sono le serie che meritano davvero l’etichetta di “capolavoro”? Quelle che, tra centinaia di produzioni, si sono distinte per qualità della scrittura, impatto culturale, performance attoriali e capacità di lasciare un segno indelebile nella memoria dello spettatore.
1. The Handmaid’s Tale: la distopia che ci guarda negli occhi

Quando nel 2017 è uscita su Hulu l’adattamento del romanzo di Margaret Atwood, nessuno immaginava che quella storia avrebbe risuonato così profondamente con il momento storico che stavamo vivendo. The Handmaid’s Tale non è semplicemente una serie distopica: è uno specchio brutale e inquietante puntato sulle dinamiche di potere, sul controllo dei corpi femminili e sulla fragilità delle libertà che diamo per scontate. La serie, che ha appena concluso il suo percorso con la sesta stagione, segue June Osborne (interpretata da una magistrale Elisabeth Moss, vincitrice di Emmy Award) nel suo viaggio attraverso l’orrore di Gilead, una teocrazia totalitaria dove alcune donne vengono ridotte in schiavitù riproduttiva. Vestite con le iconiche vesti rosse e i copricapi bianchi che sono diventati simboli di protesta in tutto il mondo reale, le “ancelle” di Gilead incarnano l’incubo di una società che ha cancellato ogni diritto femminile. Quello che rende The Handmaid’s Tale un capolavoro non è solo la sua capacità di terrorizzare con scenari plausibili e terribilmente realistici.
È la profondità con cui esplora la resistenza umana, la ricerca di identità in un sistema che ti vuole annullare, e soprattutto il viaggio di June verso la libertà, l’agency e la pace interiore. Nel corso di sei stagioni, abbiamo visto questa donna spezzarsi e ricomporsi innumerevoli volte, perdere tutto e trovare motivi per continuare a combattere. Il cast stellare costruisce un mosaico di umanità in tutte le sue sfaccettature: vittime, carnefici, complici, ribelli. Ma è Gilead stessa a essere un personaggio: forse uno degli ambienti televisivi più disturbanti mai creati, con le sue liturgie oppressive, la sua architettura del controllo, i suoi rituali di violenza normalizzata. Il finale ha saputo dare una risoluzione appropriata alla storia di June, chiudendo un cerchio narrativo che ha tenuto milioni di spettatori col fiato sospeso. E in un’epoca in cui i diritti riproduttivi tornano al centro del dibattito politico in molti paesi, il commento sociale e politico di The Handmaid’s Tale rimane più pertinente che mai.
2. Only Murders in the Building: quando il giallo incontra la commedia perfetta

Chi avrebbe mai pensato che Selena Gomez, Steve Martin e Martin Short avrebbero formato uno dei trio più affiatati e divertenti della televisione contemporanea? Only Murders in the Building, rinnovata per una sesta stagione, è la dimostrazione che quando hai una premessa brillante, una scrittura intelligente e un cast in perfetta sintonia, la magia accade. La serie segue tre residenti dell’Arconia, un elegante palazzo newyorkese, che condividono l’ossessione per i podcast true crime e decidono di crearne uno proprio quando nella loro residenza iniziano a verificarsi omicidi. Charles-Haden Savage (Martin), ex star televisiva nostalgica dei suoi giorni di gloria, Oliver Putnam (Short), regista teatrale eccentrico e perennemente in bolletta, Mabel Mora (Gomez), giovane donna saggia oltre i suoi anni ma segnata dal passato: sono personalità agli antipodi che trovano nella loro improbabile amicizia qualcosa che mancava nelle loro vite.
Quello che distingue Only Murders in the Building è la sua capacità di bilanciare perfettamente toni diversi. È una commedia brillante con tempi comici impeccabili, ma è anche un mystery genuinamente intrigante, una satira pungente sulla nostra ossessione culturale per il true crime, e una storia toccante sull’amicizia e la solitudine urbana. Il fatto che una donna di vent’anni, un uomo di mezza età e un settantenne possano formare un legame così autentico è già di per sé una dichiarazione potente contro l’isolamento generazionale. La serie potrebbe facilmente cadere nella trappola della ripetitività, ma è proprio questa consapevolezza a essere parte della sua comicità. Lo show sa di essere inverosimile e gioca con questa inverosimiglianza, mantenendo stagione dopo stagione una freschezza narrativa che molte serie perdono dopo il primo anno. E poi ci sono le guest star: da Meryl Streep nei panni della nervosa attrice Loretta Durkin a Paul Rudd come il più esperto Ben Glenroy, la serie attira talenti di primo livello che arricchiscono ogni stagione con personaggi memorabili. La parata di ospiti illustri non è mai gratuita, ma sempre funzionale alla storia, creando un universo denso e ricco che va ben oltre i tre protagonisti.
3. Normal People: il dolore silenzioso dell’amore giovane

Sally Rooney ha scritto uno dei romanzi più belli e strazianti sulla giovinezza contemporanea, e l’adattamento Hulu del 2020 ha fatto qualcosa di raro: ha catturato perfettamente l’essenza di quelle pagine, trasformando il dolore silenzioso e la complessità emotiva di Normal People in dodici episodi di televisione straordinaria. La miniserie segue Connell Waldron (Paul Mescal, lanciato verso la celebrità da questo ruolo) e Marianne Sheridan (Daisy Edgar-Jones, altrettanto rivelazione) dalla loro relazione segreta al liceo, quando lui è popolare e lei è l’outsider, fino ai loro anni di college al Trinity College di Dublino, dove i ruoli si invertono e le dinamiche di potere si riconfigurano. Quello che rende Normal People un capolavoro è la sua onestà brutale. Non c’è romanticismo zuccheroso, non ci sono semplificazioni. Marianne viene da una famiglia dove l’amore è assente e l’abuso – perpetrato dal fratello – è normalizzato.
Vedere queste scene è difficile, ma sono essenziali per capire perché questa giovane donna cerca disperatamente connessione e perché spesso la cerca nei posti e nei modi sbagliati. Il suo percorso con la salute mentale, le sue difficoltà con l’autostima, la sua ricerca di qualcuno che la veda davvero: sono tutti elementi che rendono Marianne uno dei personaggi coming-of-age più autentici mai scritti. Connell, dall’altra parte, combatte le sue battaglie silenziose: la depressione, l’ansia sociale mascherata da timidezza, la difficoltà di esprimere emozioni in un mondo che chiede agli uomini di essere sempre forti. La sua incapacità di comunicare apertamente i suoi sentimenti per Marianne crea uno schema di perdita e ritrovamento che è tanto frustrante quanto profondamente realistico.
La serie non ha paura di esplorare l’intimità fisica con una delicatezza e un realismo rari. Le scene di sesso non sono voyeuristiche, ma integrali alla narrazione: momenti di connessione, vulnerabilità, scoperta. E quando Connell e Marianne sono insieme, quando le loro orbite finalmente si allineano, c’è una dolcezza che spezza il cuore perché sai quanto è stata difficile da raggiungere. Il finale è perfetto proprio perché è agrodolce, perché riconosce che l’amore non risolve tutto, che crescere significa fare scelte difficili, che a volte amare qualcuno significa lasciarlo andare. In sole dodici puntate, Normal People racchiude un’intera epoca della vita, quel periodo confuso e doloroso tra l’adolescenza e l’età adulta, con una precisione emotiva che pochi show raggiungono.
4. The Great: quando la storia diventa divertente (senza perdere sostanza)

Se The Crown di Netflix può risultare a volte didascalica e fin troppo reverente, The Great prende la direzione opposta: è una serie storica che non ha paura di essere irriverente, divertente, sessualmente esplicita e anacronistica. E funziona in modo spettacolare. Nelle sue tre stagioni, lo show racconta la storia di Caterina la Grande (Elle Fanning, magnifica in ogni scena), concentrandosi sui suoi primi anni in Russia dopo il matrimonio con Pietro III (Nicholas Hoult, perfetto nel ruolo dell’imperatore immaturo e alcolizzato). Caterina è uno studio di personaggio affascinante: una giovane donna intelligente, determinata, appassionata d’arte e cultura, che si ritrova intrappolata in un matrimonio disastroso e in una corte russa decadente e corrotta.
Secondo la BBC, la Caterina storica era nota per la sua intelligenza, il suo mecenatismo artistico e la difficile relazione con il marito, elementi che la serie incorpora tutti. The Great riesce anche a rappresentare accuratamente diversi aspetti storici, come il problema con l’alcol di Pietro III. Ma dove la serie brilla è nell’equilibrio tra accuratezza storica e libertà creativa: non tutto quello che vediamo è accaduto davvero, ma tutto serve a illuminare verità più profonde sui personaggi e sul periodo. Quello che colpisce di più è l’età di Caterina: alla fine della prima stagione, ha solo 21 anni. È già sposata, incinta, e sta orchestrando un colpo di stato per prendere il controllo della Russia. In un’epoca in cui i ventenni di oggi stanno ancora scoprendo chi sono, studiando all’università o iniziando carriere, Caterina stava già cambiando il corso della storia. Questa giustapposizione rende il personaggio ancora più straordinario.
The Great non è solo la storia di una donna eccezionale: è una riflessione sul potere, sul prezzo del cambiamento, sulla solitudine della leadership. È anche una serie stupendamente prodotta, con costumi sontuosi, scenografie opulente e una fotografia che cattura la bellezza e la brutalità della Russia imperiale. Il dialogo è tagliente, moderno, spesso esilarante, creando un contrasto stridente con l’ambientazione storica che paradossalmente rende tutto più accessibile e coinvolgente.



