Una coppia sull’orlo della separazione si ritrova tutt’a un tratto murata in casa, letteralmente. L’incipit narrativo di Brick, nuovo thriller di casa Netflix, è intrigante quanto simbolico – blindato tra le polarità del mistero e dell’introspezione che ne orientano l’intreccio contendendosene il senso. Scritto, diretto e prodotto da Philip Koch, Brick solletica con curiosità alcuni cult del genere cui attinge (da Cube al più recente Il Buco), sfruttando claustrofobia e tensione affettiva per farsi critica sociale e intima indagine psicologica.
Il film ottimizza le estensioni spaziali di un ambiente chiuso e opprimente, se ne serve come luogo allegorico in cui inscenare le fasi di negoziazione e accettazione di sofferenze annidate fra i corridoi dell’animo umano. Così nel suo percorso fa convergere la fragilità delle relazioni umane con la vulnerabilità dei sentimenti – le alleanze e i sospetti di un microcosmo sociale sottoposto a una pressione che mette in palio la sopravvivenza e in gioco una smisurata dose di congetture e paranoie.
Paure, segreti e irrisolti latenti sondano le cavità di un ambiente (il condominio) che diventa metafora di una restrizione mentale e di un lento processo di guarigione. La costrizione è psicologica, ancora più che fisica, e culmina con l’escalation densa di un film incerto su come amalgamare le anime che binariamente lo circoscrivono. Brick si sfalda al crescere del mistero, disintegrandosi nella risoluzione incompleta di un’idea incapace di esplodere e di una trama che nel mezzo delle sue capriole emotive dimentica di contestualizzare alcune importanti fondamenta narrative. Tipo: cosa nasconde la storia di quell’enigmatico muro?
Genere: Thriller
Durata: 109 minuti
Uscita: 10 Luglio 2025 (Netflix)
Cast: Matthias Schweighöfer, Ruby O. Fee, Frederick Lau
Trappola o protezione?

È chiaro: il muro è un simbolo. Lo ha esplicitato lo stesso regista, riferendosi alla parete come evocazione di uno stato depressivo che all’improvviso spunta e silenziosamente sigilla ogni possibile via di fuga.
E d’altronde la scorgiamo subito la misura in cui Tim (Matthias Schweighöfer) ha rinunciato alla vita: l’aborto di una figlia mai nata ha edificato invalicabili barriere emotive fra lui e la moglie Olivia (Ruby O. Fee). L’uomo l’ha segregata fuori, rifiutandosi di fare i conti con un dolore troppo grande da assimilare ma comodo da tutelare dentro una fortezza di difese e distanze comunicative. Trappola e protezione, il suo malessere l’ha condotto al presente su cui si apre Brick, alla decisione di separarsi presa da Olivia in seguito all’ennesimo (fallimentare) tentativo di riconciliazione.
Il gioco del destino ha però in mente qualcosa di diverso, e così al capolinea della loro convivenza la coppia si scopre intrappolata in una casa completamente isolata dall’esterno. Il muro impenetrabile comparso nella notte ne ostruisce tutte le scappatoie, fatta eccezione per le pareti che li collegano agli appartamenti adiacenti – e quindi alle loro possibili connessioni relazionali.
Bastano pochi minuti per comprendere quanto Brick si indirizzi su orizzonti di senso manifesti: i suoi temi sono esplicitamente decifrabili, sovrascritti a un’esperienza liminale di carattere per lo più mentale, introspettivo e intrinsecamente comunitario. Il tracciato riflessivo da seguire è quello del protagonista maschile, autore e mediatore di una condizione individuale che diventa collettiva al solo fine di impartirgli indispensabili lezioni esistenziali.
E se per respingere il suo trauma Tim ha costruito un recinto di riparo e imprigionamento, similmente Brick ragiona sulla natura di quella barriera che li separa dal mondo esterno: è essa stessa una minaccia o li difende da qualcosa di peggiore in attesa là fuori?
Buone intenzioni e indefiniti sviluppi

Nel loro tentativo di fuga e di sopravvivenza, Olivia e Tim incontrano uno per uno tutti gli altri inquilini di quel condominio: tipi umani particolarizzati e tutto sommato monodimensionali, rappresentativi di una propria forma di disperazione, di paura e dei progressivi stadi della metabolizzazione del dolore. I destini dei personaggi secondari riecheggiano in Brick le fasi della rinascita di Tim, non risparmiando nulla in materia di dramma o di violenza, ma neanche affondando a dovere nel magma di quella singolare complessità psicologica.
Non molto più ampio è il respiro destinato agli altri sottotesti – contesi fra complottismi, sorveglianza, guerre e armi tecnologiche ma ugualmente sacrificati in quanto a potenzialità e risvolti ideologici. Brick imbandisce un racconto di isolamento e graduale perdita di controllo, eppure snodo dopo snodo non fa che girare a vuoto, lambendo i suoi temi con una bilanciata cura visiva e una dissonante progressione espressiva.
L’opera di Koch valorizza bene le verticalità angoscianti dei suoi soffocanti interni, perlustrando una spazialità allestita con una precisione scenografica sempre dialogante con i personaggi di cui si fa estensione. La regia è tesa e sospesa sul filo dell’ambiguità che la contraddistingue, fagocitata da una crescente sensazione di pericolo ma mai assecondata da una consequenziale evoluzione o concretezza contenutistica. Vale a dire: ogni svolta che avvicina Brick al finale disattende le proprie mire aspirazionali e si sgretola sotto il peso di un simbolismo prevedibile e troppo ancorato alla sua (volutamente) indefinita enigmaticità.
Un esperimento indeciso

Che al posto di scavare nel mistero del muro a Brick interessi esaminare l’istinto di autoconservazione con cui le persone reagiscono a esso è pure una scelta comprensibile. Il problema è che alla fine il film risulta incompleto, confuso sulla direzione da prendere e approssimativo nelle conclusioni raggiunte.
Brick è un esperimento indeciso, sabotato dalla bidimensionalità insicura di un mondo narrativo alternativamente accentrato o subordinato a mera funzione di sfondo. Il carico di suspense e inquietante tensione disobbedisce a una propria equilibrata esplorazione e finisce per essere depotenziato da una parabola anticlimatica in cui a mancare è proprio un palpabile senso di angoscia.
Brick risuona altre corde, tutte di connotazione emotiva, sfiorando tematiche che non approfondisce e intensità a cui è incapace di tener testa. L’esito è un’acerba miscela di superficiale finalizzazione, rintanata tra le quattro mura di una virtualità ancora improduttivamente ingabbiata in se stessa.
Conclusioni
Su Netflix il film scritto, diretto e prodotto da Philip Koch si nutre di mistero e claustrofobica inquietudine per ragionare sulle strategie auto-sabotanti di difesa e protezione dal dolore. Brick è un thriller psicologico dall’intrigante potenziale narrativo, indeciso sulla direzione da prendere e molto più convinto sul fronte emotivo che su quello tensivo. Un’opera poco incisiva da qualsiasi prospettiva la si osservi.
Pro
- Le performance assortite dei due protagonisti
- Una curata descrizione ed esplorazione visiva della spazialità
Contro
- L’assenza di una direzione connettiva tra le varie nature del racconto
- Una generale mancanza di personalità
- Alcuni comprimari troppo macchiettistici
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Voto ScreenWorld