Un sorriso ammiccante e un conato di vomito. Due bionde sotto i riflettori in due locandine agli antipodi. In quella di Spencer Lady Diana si nega al nostro sguardo, ci dà le spalle, piegata in un crampo di dolore. In quella di Blonde, invece, Marilyn Monore ci sorride in primo piano e si mostra in tutta la sua bellezza. La nausea dell’apparire e la condanna dell’essere diva. Due poster diversi per due film molto simili.
Perché Pablo Larraín e Andrew Dominik hanno fatto la stessa cosa: immaginato lo stato emotivo di due persone ingabbiate nel personaggio. Due donne stropicciate dallo sguardo del pubblico che vengono adottate dal cinema per essere davvero capite. Un paradosso, un cortocircuito. Due donne disgustate dalla loro immagine raccontate ancora una volta attraverso le immagini. E allora proviamo a capire come mai gli incubi di Marilyn Monroe ci hanno ricordato quelli di Diana Spencer.
Fuori dalla realtà
Cosa c’è ancora da dire quando si è detto tutto sulla loro vita? Cosa c’è ancora da mostrare quando abbiamo vivisezionato anche la loro morte? Spencer e Blonde sono due biopic atipici perché partono dallo stesso impulso: il rifiuto della realtà. Una realtà che ha divorato le figure pubbliche (e private) di Diana Spencer e Norma Jeane dandoci in pasto le loro vite. Vite masticate, stropicciate, maltrattate. Se i film biografici spesso si limitano a raccontarci cosa è successo, Spencer e Blonde immaginano quello che non ha visto nessuno.
Immaginazione, appunto. Non realtà. Per questo i film di Larraín e Dominik hanno spiazzato e diviso così tanto. Perché hanno sfruttato un genere spesso rassicurante come il biopic (molto amato dal pubblico) per sfidare il pubblico stesso, scuoterlo e stuzzicarlo con qualcosa di inaspettato e a tratti persino sgradevole. Per una volta non c’è niente di certo in quello che stiamo guardando, perché Blonde e Spencer sono proprio uno schiaffo in faccia alla nostra vorace pretesa di sapere. Al voyeurismo ottuso di chi vuole cibarsi di vite altrui anche sul grande schermo.
Dentro l’incubo
Sgradevole, dicevamo. Sì, perché Blonde e Spencer hanno rifiutato la realtà per trasformarla in un lungo incubo. Entrambi i film, infatti, non si sono limitati a immortalare momenti decisivi nelle (presunte) vite di entrambe, ma ci hanno restituito i loro tormenti interiori, i loro traumi e le loro paure. Blonde e Spencer non sono semplici film. Sono stati d’animo. Così Dominik decide di rappresentare Marilyn attraverso immagini distorte e inquiete. Il formato cambia di continuo, a volte opprime, altre si allarga illudendoci di far respirare Norma anche solo per un attimo. Cambiano i colori, a volte accesi, altre spenti, che si alternano al bianco e al nero. È una dimensione instabile come quella onirica. Quella di un lungo incubo infernale come Blonde (che non a caso si apre tra le fiamme). Una tortura lunga tre ore. Dove senti l’odore del sangue e il sapore dello sperma. Tutto nella testa di una donna cresciuta con miti maschili perversi come i suoi maschi.
Anche se in modo più tenue e meno violento, Spencer fa una cosa molto simile. Larraín ci invita in punta di piedi nella dimensione emotiva di Diana. Senza Lady davanti. Solo Diana e i suoi dolori. Solo Diana e le sue prigioni interiori. Alla ricerca di un po’ di empatia. Ecco come nasce un biopic atipico, che sfocia persino nell’horror psicologico, passando dal reale al surreale in un battito di ciglia. Un film in cui ogni stanza è un dimensione emotiva, in cui spazi e abiti raccontano una donna in tumulto. Due horror per squarciare la patina glamour. Due inquietanti storie di fantasmi (evanescenti come i loro personaggi). Due what if in cui guardare (o meglio, spiare) significa sempre essere colpevoli.
L’ombra dei padri
Blonde e Spencer ci tengono ad andare oltre la patina, oltre le copertine e le etichette degli abiti firmati. Sotto la confezione soffocano due icone che Blonde e Spencer provano a trasformare in persone. E allora ecco le madri mai nate, le mogli abbandonate, e soprattutto le figlie. Entrambi i film ci tengono a dipingere Diana e Norma come persone alla deriva, alla ricerca di radici in mezzo alle proprie tempeste. Radici che le riportano sulle tracce dei padri. In Blonde e Spencer la figura paterna, sempre assente e in qualche modo idealizzata, funge da faro per le donne. In Spencer il cappotto paterno, indossato dallo spaventapasseri nella tenuta di famiglia, diventa l’emblema di un orgoglio famigliare da scuotere. Il ricordo del padre di Diana risveglia in lei la voglia e il bisogno di essere Spencer, al di fuori di qualsiasi etichetta regale. Quel cappotto è un riparo, un rifugio in cui Diana trova la forza di rinascere. Desiderio simile (ma destino opposto) anche per Norma in Blonde, dove la figura paterna è un fantasma rincorso dall’inizio alla fine. Un miraggio (rappresentato da una foto), una promessa di amore rimandata di continuo, una luce che si affievolisce sempre di più diventando un’atroce illusione. Padri assenti eppure presentissimi, che smuovono e si fanno rincorrere.
Salvare e uccidere
Il cinema come scudo per Diana. Per proteggerla e ridarle nuova vita. Il cinema come patibolo per Marilyn. Lì dove è stata uccisa a ogni sguardo. Lì dove è morta ogni volta che un uomo la mangiava con gli occhi, come se avesse davanti solo un pezzo di carne. Perché se Larrain ha protetto Lady D con un film in cui salvarla, Dominik è stato molto meno generoso. Blonde e Spencer sono film simili, è vero, ma percorrono la stessa strada andando in direzioni opposte. Spencer è un film che disturba, ma che alla fine reagisce all’orrore dell’accontentarsi. Diana esce dalle sue prigioni e prende finalmente ossigeno. Ossigeno che Norma non respirerà mai. Troppo soffocata da Marilyn. Per questo Blonde fa male, diventa a tratti insopportabile. Perché trafigge di continuo Marilyn senza mai farci intravedere uno spiraglio di salvezza. Due incubi biondi, quindi. Solo che da uno ci si risveglia. Dall’altro no. Perché si viene inghiottiti.
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