Si dice che, a volte, le rivoluzioni nascano volgendo lo sguardo verso l’altrove, per poi ripuntarlo sulla propria realtà con una nuova e più profonda consapevolezza. Un po’ come è accaduto per la New Hollywood, forse la più importante rivoluzione del cinema americano dai tempi del sonoro: quando un pugno di registi e di sceneggiatori, dopo aver assimilato le innovazioni della Nouvelle Vague e degli autori europei, provarono a riproporle attraverso la loro macchina da presa, abbattendo una dopo l’altra le regole su cui, per più di trent’anni, si era basato l’intero studio system. Una rivoluzione di cui William Friedkin è stato, com’è ben noto, uno dei principali alfieri; fu lui stesso, del resto, a dichiarare che, se non avesse visto Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras, non avrebbe mai potuto dirigere Il braccio violento della legge… o perlomeno, non avrebbe diretto il film che conosciamo oggi.
Ma in assoluto, lo sguardo di Friedkin si è spesso rivolto a un altrove su cui ha saputo condurre anche i nostri occhi: l’ignoto, il perturbante, il pericolo, la follia sono state le variabili ricorrenti della sua produzione, pure quando essa sembrava correre lungo i binari dei generi considerati di puro intrattenimento, dal poliziesco all’horror. In qualche modo, l’attrazione per i contrasti doveva appartenere al suo codice genetico: quello di un ragazzo nato e cresciuto nell’alveo della piccola borghesia di Chicago, con la passione per il basket, ma il cui retaggio familiare era segnato dalla discriminazione e dalla violenza (nonni e genitori erano emigrati dall’Ucraina di inizio secolo a causa delle persecuzioni antisemite). Ed è la violenza, non a caso, ad aver caratterizzato i suoi film più celebri: una violenza rappresentata senza tentativi di edulcorarne la brutalità, ma al contempo priva di gratuiti compiacimenti.
Il vento del cambiamento
Il tono distintivo dei capolavori di William Friedkin, quel realismo grezzo, talvolta respingente, di cui è ammantato perfino un horror metafisico quale L’esorcista, discendeva almeno in parte dalla sua esperienza da documentarista: Friedkin si era fatto notare per la prima volta nel 1962, all’età di ventisette anni, per The People vs. Paul Crump, ritratto di un condannato nel “braccio della morte”, dividendosi da lì in poi fra documentari e ingaggi televisivi. Per quanto riguarda invece i suoi primi passi al cinema, si tratta di lavori su commissioni che difficilmente avrebbero fatto presagire quel che sarebbe venuto in seguito: il suo lungometraggio d’esordio datato 1967, Good Times, si compone di un amalgama di sketch interpretati da Sonny & Cher, e al genere della commedia musicale afferisce anche Quella notte inventarono lo spogliarello, diretto un anno più tardi su un copione di Norman Lear.
Ma nel frattempo, sull’onda della controcultura, dell’attivismo politico, delle libertà rivendicate dai più giovani e dalle minoranze in cerca di rivalsa, il vento stava cambiando pure a Hollywood. Accade così che nel 1970, a registrare un successo semplicemente inconcepibile fino a qualche anno prima, è The Boys in the Band, tratto dal testo teatrale di Mart Crowley e distribuito in Italia con il titolo Festa per il compleanno del caro amico Harold: un Kammerspiel sulla comunità gay di New York, dipinta da Friedkin con un occhio clinico di scioccante e impietosa lucidità. Un anno più tardi, un progetto che poteva apparire un comune poliziesco a base di sparatorie e inseguimenti d’auto trasformerà radicalmente le coordinate del genere: Il braccio violento della legge (in originale The French Connection), con Gene Hackman e Roy Scheider, si sarebbe imposto fra le opere più emblematiche del cinema americano degli anni Settanta, grazie al connubio fra un approccio ‘sporco’, tesissimo, dalla straordinaria capacità immersiva, e l’ambiguità morale di personaggi su cui è impresso il marchio della giungla metropolitana di cui fanno parte.
Sopravvivere alla New Hollywood
A due anni di distanza dal plebiscito per Il braccio violento della legge, compresa la pioggia di Oscar, nel 1973 è la volta de L’esorcista, con la sua riscrittura dei paradigmi dell’horror tanto sul piano narrativo (e qui il merito va a William Peter Blatty, autore del romanzo omonimo nonché sceneggiatore e produttore del film), quanto su quello stilistico: la gestione magistrale della suspense, scene che hanno scolpito l’immaginario collettivo, la costruzione di un’atmosfera di perversità inesorabile, accentuata dalla cupa fotografia del fido Owen Roizman. Al fervore inaudito per L’esorcista, autentico fenomeno di massa (rinverdito nel 2000 da un fortunato director’s cut), nel 1977 verrà dietro l’amaro contrappasso de Il salario della paura, angoscioso remake del classico di Henri-Georges Clouzot Vite vendute: uno dei più ingenerosi disastri commerciali dell’epoca, quasi un preludio di quanto avverrà da lì a breve con I cancelli del cielo di Michael Cimino, fra lavorazioni a dir poco travagliate e il tragico disinteresse del pubblico.
Se titoli come Il salario della paura potranno fregiarsi, in futuro, della reputazione di cult ‘maledetti’, il tramonto della New Hollywood avrebbe potuto far deragliare del tutto la carriera di William Friedkin, al pari di diversi suoi illustri colleghi. Ma tra fiaschi cocenti e film incompresi o semi-invisibili, Friedkin firmerà almeno altri due thriller in grado di raccontarci come pochi altri suggestioni e inquietudini dell’America degli anni Ottanta: in Cruising, il sottobosco della vita notturna nei locali gay di New York è trasfigurato in un microcosmo tenebroso e seducente, adottando la prospettiva ‘estranea’ del detective in incognito Al Pacino; mentre in Vivere e morire a Los Angeles, la dicotomia fra poliziotto e gangster viene rivisitata con un’intensità e una crudezza perfino più spiazzanti rispetto all’epoca de Il braccio violento della legge. Una vitalità analoga a quella sfoderata da Friedkin, benché con minor frequenza, anche in tempi più recenti: è il caso di Killer Joe, corrosivo neo-noir dalle venature grottesche, a ennesima riprova di un talento folgorante che non sembrava conoscere età né tantomeno inibizioni.
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