Se “esistono tanti modi di vivere in mezzo alla tragedia”, quello di We Live in Time è sicuramente un mo(n)do bellissimo. Ce lo aveva suggerito la Ingrid di Julianne Moore nell’ultimo film di Pedro Almodóvar: lei che sapeva come soffrire con grazia, inseguendo una gratitudine capace di valorizzare la stratificata gioia dell’essere presente. Persino quando, dietro la porta chiusa di una stanza, l’esistenza si consumava al ticchettio inquieto della viscerale paura della fine.

Quando si ha a che fare con la malattia, il futuro sembra assumere connotati spaventosi, contorcersi nei contorni indefiniti di un imperativo e sconfinato tempo presente. Improvvisamente ci si ritrova a girovagare sul perimetro di una vita esitante, priva di certezze. E quindi si è costretti a rimanere fermi, a riallocare il proprio equilibrio, trattenendosi tra le parentesi fragili di una temporalità sospesa: dove non si vorrebbe stare e dove il ricordo agisce come traccia inafferrabile di una progettualità che ora procede a tentoni, insicura e pensante. Cosa farne di quel presente è materia filosofica, riflessione ai limiti della coscienza umana, contenuto su cui il cinema ha da sempre ricamato le sue storie – e su cui We Live in Time incornicia la dolceamara dignità della memoria, immortalata nella magia di quel preciso istante in cui la si sta (ancora) costruendo.

Attorcigliato fra assonanze mnemoniche ed emotive, il tempo invade la scena di We Live in Time facendosene protagonista, rivelatore di una sincronia sentimentale montata insieme senza alcun ordine cronologico. A questa storia si partecipa privi di delimitazioni, immersi nelle istantanee mentali di un sentimento che si riappropria del tempo per determinare il valore di una vita, due persone, una famiglia e l’ereditarietà di una semplice ma irrinunciabile quotidianità.

Preservare la vita nella dignità della morte

I protagonisti di We Live in Time
I protagonisti di We Live in Time – @ Lucky Red

Ne La stanza accanto Pedro Almodóvar si avvicinava alla fine della vita registrando nella malattia la perdita dei sapori di un’intera personalità. We Live in Time dal dramma del cancro ricava invece una voce fuoricampo, una porzione d’identità che tanto non circoscrive l’esistenza della protagonista quanto non determina l’andatura del proprio narrare. C’è un aspetto, però, che senza fini ricattatori accomuna entrambe le digressioni sulla morte: la salvaguardia della sua rispettabilità.

Preservare la bellezza della vita, per  Crowley e Almodóvar, sembra voler significare difenderne strenuamente la complessità. Tenere insieme le discromie che concorrono alla tinteggiatura di un’identità, rimpallando senza giudizio tra i piaceri individuali e i compromessi interpersonali. Continuare a esercitare l’arbitrio di autodeterminare il proprio lascito sulla Terra: che sia mentre ancora lo si vive, nel modo in cui si sceglie di farlo o nell’anticipazione di una morte che abbia dignità – nonostante ogni possibile alternativa e nonostante l’onere della maternità.

Entrambi i registi svincolano le loro donne protagoniste dalla retorica del proprio ruolo di madri, ne raccordano tratti contradditori, sfumati, avviluppati in una ricchezza d’insieme che più che di personaggi racconta di persone. Capaci di amare anche quando scelgono di voler morire, di non volersi più curare, di perseguire tracciati propri, divergenti da quelli familiari.

Almut: non solo una madre malata

Florence Pugh in una scena di We Live in Time
Florence Pugh in una scena di We Live in Time – @ Lucky Red

La penna di We Live in Time dà forma a una donna che al vivere si dona completamente – resiliente e competitiva, ruvida e remissiva, fragile e piena di sentimento. Una donna che è anche madre e con la sua maternità si domanda cosa destinare alla propria figlia: nella speranza che al ricordo di sé non venga associata la sola infermità, la resa di una battaglia, il retaggio di una sofferenza. Una donna scritta con tutta la solitudine che caratterizza la patologia, l’egoismo che ne determina le decisioni, le rinunce necessarie alla sopravvivenza del nucleo familiare.

Impaginato fra le sfumature di una vitalità che alla terapia associa il rischio di una perdita di tempo, contestando il lessico colpevolizzante e bellicoso della malattia, We Live in Time tutela l’esistenza aggrappandosi a punti d’ancoraggio propri. Scuciti e rammendati in squarci di una quotidianità che desidera lasciarsi definire soltanto dalle parole, gli occhi lucidi e i sorrisi della propria insindacabile capacità di amare.

Il tempo della vita fra le sue tonalità emotive

Andrew Garfield in una scena di We Live in Time
Andrew Garfield in una scena di We Live in Time – @ Lucky Red

In parola e in amicizia, fra il montaggio e l’amore: La stanza accanto e We Live in Time riverberano tra la vita e la morte condividendo cinema e fragilità, interpretazione e relazionalità. Tilda Swinton e Julianne Moore danno vita al monologo monumentale di due esistenze adiacenti e complementari: reporter di guerra l’una, romanziera l’altra, ne La stanza accanto le istanze del contemporaneo, della cultura, del passato storico e personale sono compassate dalla sottrazione espressiva di un cinema che improvvisamente si arresta, donandosi dialogicamente al coinvolgimento del suo spettatore. Spazio e tempo si sospendono nell’indefinitezza di un’attesa della morte che continua ad attestare la propria partecipazione alla vita – discorrendo sulla sua celebrazione, i suoi legami e le sue declinazioni soggettive.

John Crowley la parola la scompone invece in mille pezzi, convertendola in immagine da intonare di volta in volta alla temperatura delle emozioni di cui si fa tutore: di picco drammatico in decompressione, di intensità emotiva in stemperamento. Florence Pugh e Andrew Garfield si concedono con assoluta generosità al legame sentimentale, restituendo una naturalezza che sprigiona sintonia, sincerità e commovente riconoscibilità.

Il loro tono è più basso rispetto a quello scelto da Almodóvar, si muove con leggerezza su una girandola di timbriche emozionali ordinarie catturate dalle immagini sognanti di una storia d’amore raccontata per frammenti, cucita per corrispondenze, ricostruita a posteriori dalla materia prima del montaggio – qui enunciatore delle pagine più cruciali e banali di un bellissimo romanzo di vita.

We Live in Time, un bellissimo spazio da abitare

Florence Pugh e Andrew Garfield in We Live in Time
Florence Pugh e Andrew Garfield in We Live in Time – @ Lucky Red

Così We Live in Time ci permette di conoscere i suoi protagonisti molto prima che ci vengano presentati, evocati dal singhiozzo di sequenze che contornano e intersecano le reciproche esistenze. In quelle schegge di vissuto raccogliamo durezze e vulnerabilità, sullo sfondo di un tempo fuggevole che assolutizza il presente nell’attimo stesso in cui lo traduce in ricordo.

We Live in Time stacca e raccorda fra piccoli dettagli e nuove consuetudini, situazioni che si assomigliano e ricorrenze che allestiscono gentilmente uno spazio più che mai familiare, comodissimo da abitare. Non è difficile innamorarsi del loro modo di amare: lo si fa impercettibilmente, sorridendo mentre prendiamo parte alla complicità di eredità impacciate, nutrite come impronte indelebili di una memoria coniugata a un tempo passato, presente e futuro.

We Live in Time percorre silenzioso i corridoi di verità confessate dentro sfuggenti ellissi narrative, sospese tra i vuoti e gli alleggerimenti di un’espressività rivelatrice di ciò che non è necessario spiegare a parole. La resistenza dell’amore fra Tobias e Almut ha a che fare con il modo in cui scelgono di vivere il tempo che hanno a disposizione, ha che fare con l’ascolto e la gracilità di un’intimità costretta a imparare a convivere con l’assenza. Ma in fondo sceglie di non preoccuparsene: perché comunque vada domani, loro hanno ancora da vivere oggi.

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Laureata in CAM (Cinema, Arti della scena, Musica e Media) e Comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino. Attualmente collaboratrice di ScreenWorld.it e NPC Magazine. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità e le esperienze degli altri. Nella vita scrivo, studio e mi circondo di cinema, perché penso non esista niente di più bello.