“Perché indossi un vestito da femmina? Perché mi sta benissimo”. Il protagonista di questa storia è un’immagine di libertà, pura luce in mezzo a un mondo di zone d’ombra e complessità. Le contese di quel mondo, Blu, a volte neanche le comprende. Agli sguardi che calano giudizi sulla sua espressività il bambino ribatte con sconcertante semplicità – totalmente disarmante per la pletora di adulti sgambettanti attorno a lui. Ma intendiamoci: quella del protagonista di Unicorni non è l’ennesima astrazione da qualsiasi parvenza di naturalità; al contrario, nel film di Michela Andreozzi i bambini si comportano davvero da bambini. E non è poco, per cominciare.
Unicorni è senza dubbio il lavoro più maturo di una regista che per anni si è barcamenata fra i temi caldi della contemporaneità. Il suo sguardo è quello di sempre: semplificato perché orientato a un pubblico quanto più vasto possibile, inoffensivo nella direzione registica, verboso nella spiegazione concettuale e ancora ciondolante fra leggerezza e profondità. Al centro di questa storia c’è una famiglia in trasformazione, l’unità di un nucleo familiare torchiato dalle sfide identitarie e da una burrascosa necessità di evoluzione. La varianza di genere è il pretesto per raccontare una genitorialità frastornata da una difficile rieducazione emotiva e sentimentale: è il gancio per ridiscutere una mascolinità problematica e per riscattare – ancora una volta – la voce emancipata della femminilità.
Il superamento dell’omologazione sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni si appella a un’intelligenza emotiva che impara a mettersi in posizione d’ascolto, che si arresta, sbaglia e cresce smantellando le certezze che danno ordine al suo fluire. Unicorni tenta di simulare un graduale risveglio all’accoglienza e all’inclusività – e a conti fatti sembra farcela, con tutte le sue limitazioni.
Genere: Commedia
Durata: 105 minuti
Uscita: 18 Luglio 2025 (Cinema)
Cast: Edoardo Pesce, Valentina Lodovini
Di contraddizione in evoluzione

È bene tenere a mente che Unicorni è un film da intendere per quello che è, confinato fra le sue eloquenti aspirazioni. Non possiede, chiaramente, il carisma o il taglio di prodotti simili che di recente hanno affrontato le medesime sfere tematiche (da Euphoria a Heartstopper o al nostro personalissimo Prisma). Ma d’altronde, neanche lo desidera: Unicorni vuole arrivare a più gente possibile. Vuole attenzionare, sensibilizzare ed educare a nozioni complesse con modi gentili. Così plana sull’infanzia e sulla sua sorprendente consapevolezza di sé, si procaccia uno spazio vulnerabile dove armeggiare con le fragilità di un’umanità in continua riformulazione.
Lucio è un Edoardo Pesce alle prese con un ruolo più delicato di quelli a cui ci ha abituati. È un padre pieno di contraddizioni, un uomo che ha interiorizzato le difese dominanti di una mascolinità contrastata con parole di apparente progressismo e comportamenti rivelatori di un’eteronormata virilità. Unicorni rimbalza continuamente dentro e fuori dai canali standardizzati entro cui mascolinità e femminilità sono socialmente uniformate: con poca disinvoltura e molto didascalismo, il film ci spiega a cosa aspirare per noi stessi e per le persone a cui vogliamo bene. Ci racconta dell’amore a partire dall’urgenza della sua incomprensione. Ci invita a disintegrare e ridefinire impianti relazionali e linguaggi emozionali – se tanto serve per lasciare a chi amiamo lo spazio di essere se stesso.
Blu vuole essere Blu. Perciò non collude con le premure dei propri cari, con la loro strana inclinazione a problematizzare la sua identità – ingabbiata suo malgrado fra le mura di una casa e le catalogazioni invalidanti del capriccio, del gioco o dell’insolito vezzo dell’età. A Blu piace vestirsi da femmina, ma in che modo definisce chi è?
A lezione di genitorialità

Blu definisce se stesso non potendo fare a meno di essere sé. La sua chiarezza identitaria non si sposta più lontano di così, non ne sente il bisogno. Intorno a lui il mondo crolla, gira e si scompone in modi che il bambino proprio non afferra, fatica a fare propri. Eppure Blu resta garbato, risponde alla grettezza con generosità, alla forza con coraggio, alla protezione con la volontà di autodeterminazione. I suoi genitori, invece, vaneggiano ancora alla ricerca di una voce: mamma Elena (Valentina Lodovini) è la figlia infantilizzata di una famiglia distante; papà Lucio un uomo infragilito dall’educazione vessante di un padre intollerante. Alle rispettive eredità entrambi hanno reagito costruendo qualcosa di diverso e tentando, in tutti i modi, di essere migliori.
Tuttavia, l’identità di genere di Blu scoperchia dubbi e turbolenze nel clima emotivo familiare, li costringe a esaminare le proprie incongruenze e a misurarsi con altre storie di simile natura. La coppia partecipa alle sedute di gruppo della psicoterapeuta Vittoria (Michela Andreozzi) attingendo alla solidarietà di famiglie agguantate dal medesimo (accidentato) percorso di riconoscimento e accettazione del cammino esplorativo dei propri figli. In tal modo Unicorni si interroga con lucidità sul peso delle aspettative genitoriali, sulla necessità di proteggere e il timore di accogliere, malgrado tutte le costrizioni sociali responsabili del soffocamento della diversità e dello svilimento della sua unicità.
La condivisione fra i Genitori Unicorni fiancheggia un graduale accompagnamento alla consapevolezza e al cambiamento, un processo evolutivo che interpella tanto i protagonisti quanto i loro spettatori. Ed è privo di giudizio: è un ambiente di scontro e di confronto che si fa carico delle paure e degli errori incoraggiandone una corretta elaborazione.
Dare rappresentazione

Non privo di luoghi comuni e con un ritmo che fiacca in avvicinamento al finale, Unicorni veste con agio l’abito da dramedy familiare, e tanto basta per recapitare il suo messaggio. Lo fa trovando un tono empatico fra sensibilità e ironia e schivando leziosi slanci di retorica e sentimentalismo.
Se Unicorni riesce nel suo intento il merito è in gran parte da attribuire all’integrità delle performance che lo animano: Pesce, Lodovini e Scardini si donano con credibilità a un’emotività convincente, mai eccessivamente enfatica ma al contrario cautamente diretta da un’idea di regia capace di proteggere il proprio pudore, senza eccedere in tensione drammatica.
Venature pop e monologhi emozionali ingentiliscono una narrazione che di certo non dissesterà le sorti del suo cinema – ma nondimeno dà prova di coraggio nel tentare di allentare le redini della nostra (limitata) inclusività rappresentazionale.
Conclusioni
L’ultimo film di Michela Andreozzi è anche il più maturo e ponderato della sua filmografia. Unicorni racconta l’identità di genere attraverso le sfide evolutive di una genitorialità in riformulazione. Un’opera accogliente e gentile che invita all’ascolto e alla necessità di ripensare la propria e altrui libertà d'espressione.
Pro
- La naturalezza e maturità espressiva del protagonista
- La timbrica delicata e non enfatica con cui affronta i suoi temi
- Il buon equilibrio tra emozione e ironia
Contro
- Il ritmo non tiene per tutta la durata del film
- La volontà di accontentare tutti si scontra con la semplificazione delle complessità
- A volte è fin troppo verboso e didascalico nei suoi intenti educativi
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Voto ScreenWorld