Questo pezzo ha tardato un po’ a venire elaborato, giacché era interessante seguire lo sviluppo al box office di Uncharted, nuovo prodotto cinematografico tratto dall’omonimo franchise videoludico di casa Sony PlayStation. Al netto di un’accoglienza o aspettative non sempre esaltati, è curioso il percorso economico – in piena pandemia – del film che si appresta a toccare la cifra dei trecento milioni di dollari di incasso mondiale. Se per anni Hollywood ha attinto da romanzi e nelle ultime decadi fortemente dai fumetti, adesso si moltiplicano le opere tratte da videogiochi che, al netto della qualità, sembrano funzionare al botteghino.
Il percorso, che ha portato sino ad oggi a un uso e fruizione sia al cinema che in formato seriale, ha avuto comunque tanti, troppi esponenti di dubbio gusto o semplicemente brutti anche solo per fermarsi e cercare di salvare l’insalvabile. Come mai dunque questo matrimonio tra cinema e videogiochi sembra essere ancora lontano dal realizzarsi?
Idealizzare un prodotto
Ciò che rende differente l’approccio al film tratto da un libro è che la nostra mente tende a immaginare e idealizzare quello che leggiamo. Abbiamo semplicemente degli input che poi cerchiamo di assemblare nella fantasia. Quando poi arriva la trasposizione cinematografica, tendiamo – forse troppo – a giudicare la riuscita o meno estetica e caratteriale di un personaggio.
Con i personaggi dei videogiochi questo è un discorso molto più complesso o, semplicemente, diverso. Un personaggio è già ben costruito, ha crismi, passioni, difetti e quant’altro. Trasportarlo su schermo coincide con l’andare a sbattere contro il classico muro della diversità dalla fonte originale, oppure ancora peggio, lo spettatore non riesce a entrare in sintonia con quella versione cinematografica perché ormai ha idealizzato quel personaggio in un determinato modo. Uscire da una propria comfort zone è sempre difficile.
Il falso problema della fedeltà
Questo avviene spesso con i film tratti da fumetti e affini: nella decade chiave dei cinecomics, gli appassionati difficilmente riescono a digerire nella loro totalità una rappresentazione cinematografica di un dato eroe, senza sottolineare quanto o meno possa essere fedele alla controparte genitrice.
Proprio il film di Uncharted ne è un grande esempio, con il Nathan Drake di Tom Holland che si distacca tantissimo – tranne qualche momento puntellato – dal Nathan Drake di casa Naughty Dog. Si può soprassedere, essere curiosi, chiudere un occhio o anche due e alla fine capire se ciò che stiamo vedendo soddisfa i nostri sensi. Probabilmente no, ma come sempre questo si rivela essere un punto estremamente soggettivo che poi trova spazio per i dibattiti sul web. Insomma, quello della fedeltà al materiale originale, è un falso problema, perché come spesso capita, è l’interpretazione e la rilettura data a quel personaggio che influisce direttamente con l’adattamento del film.
La sottile arte dell’adattamento
Se dovessimo racchiudere in un unico pensiero la risposta alla domanda “perché è difficile fare film tratti dai videogiochi?”, il tema toccato sicuramente sarà l’ostacolo arduo dell’adattamento. Un esempio calzante è quel Super Mario Bros (1993) da molti considerato come uno dei punti più bassi, quando invece è il fulgido esempio di un adattamento anche stimolante nelle intenzioni e successiva messa in scena di quel mondo parallelo simil steampunk, ma che si allontanava nettamente dal concept videoludico di base. In carenza di solide basi per l’inedita rilettura, tutto il film risulta essere molto debole, seppur affascinante.
Di contro, uno dei migliori prodotti visti è senza ombra di dubbio Silent Hill (2006) dove Christophe Gans effettua l’unica scelta possibile per confezionare un film logico: prendere gli elementi originali che meglio si plasmano nella cornice cinematografica e poi costruire attorno ad essi delle basi forti, anche diverse – ma mai troppo – per poi creare un’ossatura funzionale.
Come ben sappiamo il destino è assai beffardo e se salutiamo quel Silent Hill come una delle migliori operazioni di adattamento, di contro il sequel Silent Hill Revelation 3D (2012) è l’esatto opposto, con quelli che sono una sequela di segmenti presi pari dal videogame, montati assieme senza una vera e propria logica continuativa.
Il problema e la nuova direzione
Il grande problema dunque sembra ricollegarsi sempre all’operazione di adattamento, dove molti produttori e sceneggiatori hanno inciampato e che solo recentemente Hollywood sembra aver trovato la formula giusta: con Cuphead, The Witcher e forse la vicina serie tv di Halo, in alcuni casi la formula seriale ha fortemente aiutato il comparto narrativo per prendersi il suo tempo e farci addentrare nella storia con tutta la calma necessaria. L’arrivo di Uncharted e relativo successo al box office sembra aver trovato anche la sua formula produttiva, con prodotti semplici e diretti, puntando sull’intrattenimento – spicciolo o meno è poco importante – e la possibilità di vendere tali prodotti ai rispettivi fan, che riconoscono l’opera come estremamente semplice e che non infanga il nome del franchise da cui attinge. Da qui si può anche parlare di prodotti crossmediali, capaci di vivere esattamente dentro e fuori le nostre console o PC, ma questa è un’altra storia che solo con l’arrivo di nuovi prodotti e relativo successo potremo confermare o contraddire. Intanto godiamoci ed analizziamo il momento che stiamo vivendo e quella che sembra l’inizio di un’ondata di “cinevideogame” di prossima uscita.