Forse non riceverà i clamori che merita, ma The Brutalist di Brady Corbet potrebbe davvero stupire in questa Venezia 81. Il regista arriva al terzo lungometraggio (il secondo in Concorso al Festival del Cinema) con un’opera magna di ben 215 minuti – al momento l’unica con intervallo programmato in fase di montaggio. The Brutalist ha la risma dei kolossal, il peso dei grandi biopic, ma ciò che lo rende davvero unico è uno stile che lo esalta come unicum da ricordare anche nei mesi a venire. Un’omaggio all’arte e ai suoi tormenti, ma anche un’ode al contesto della Mostra di Venezia: Corbet porta su schermo l’appassionante e intenso racconto di un uomo (un artista) dalle mille sorprese, tanto nel bene, quanto nel male.
Bastano pochi istanti per percepire l’imponenza di un viaggio destinato a lasciare il segno come le più grandi storie, eppure il protagonista di un’Odissea così autentica non è mai esistito. Nulla di tutto ciò che viene raccontato nel film è reale, ma lo diventa agli occhi dello spettatore grazie a una produzione fra le migliori dell’anno. La storia di The Brutalist è talmente “vera” da far raggelare il sangue: un intreccio di destini e deliri, traumi e sollievi che tiene incollati allo schermo senza cedere il passo. Troppo presto per parlare di questo film in ottica premi? Forse, ma i segnali parlano chiaro: il film di Corbet è il migliore della Mostra (almeno finora) e sarà uno dei lavori più apprezzati dell’anno.
Genere: Drammatico
Durata: 215 minuti
Uscita: ND (Cinema)
Cast: Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce
L’uomo dietro l’icona
A metà tra contesto e denuncia, tra persona e mito, László Tóth (Adrien Brody) è un architetto ungherese (ed ebreo) sfuggito dalla prigionia dei campi di concentramento e da poco arrivato in America. Attraverso il suo viaggio artistico, fatto di gioiose rivalse e crolli improvvisi, Corbet dipinge la vita di un artista con pennellate decise, lasciando che siano i dettagli a emergere man mano che la narrazione prosegue. Nel quadro di The Brutalist si possono scorgere dettagli differenti in base al livello d’analisi: il dialogo sull’arte salvifica, il dualismo tra reietti e capitalisti, ma soprattutto il contrasto tra Tóth e il facoltoso Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Il film di Corbet punta tantissimo sulle dinamiche proposte in sceneggiatura, cambiando costantemente i rapporti gerarchici (e fisici) fra i personaggi.
In questo caleidoscopio di stimoli e premesse emerge un contrasto fenomenale tra il sogno dell’amore e l’oscura realtà dell’artista, tanto nella sfera intima quanto in quella creativa dei personaggi. Tra bisogni e desideri, The Brutalist trova nell’ossessione lo strumento narrativo migliore per definire tono e ritmo della narrazione: in un contesto in cui le storie sfruttano espedienti diversi per attirare gli spettatori, Corbet ricorda l’importanza fondamentale del conflitto e piega ogni elemento alle esigenze di quest’ultimo. Nella mente del regista, sotto la polvere di un’America turbata c’è un diamante grezzo che aspetta soltanto l’occasione giusta per brillare.
Dalla pagina allo schermo
Dal cuore degli Stati Uniti degli anni ’50 al cuore del mondo: in un film che racconta le ombre del tormento, la luce diventa la vera guida dello spettatore. La fotografia, infatti, gioca sui contrasti come nei lavori più moderni, esaltando le scenografie con una potenza incredibile: le strutture di The Brutalist sono forse uno degli elementi più interessanti, capaci di rappresentare simbolicamente i vari momenti vissuti dai personaggi e di intercettare pragmaticamente la maestosità voluta dal regista. Non è un caso che i riferimenti siano quelli di grandi racconti americani come le opere di Paul Thomas Anderson, evidenti persino nell’idea di sviluppo del sentimento in scena. Il racconto di Corbet scava a fondo del suo protagonista, delineando i contorni di una vita straordinaria fatta di slanci verso il cielo e di baratri senza fondo.
Il significato più intimo dell’opera non sta nella sola realizzazione personale, ma nell’anatomia dell’ambizione come linfa vitale (e potenziale condanna) dell’uomo creativo. Forse Corbet vede nel dolore del suo László qualcosa di vicino alla sua idea di grandezza e per questo decide di chiamarlo come l’uomo che deturpò la Pietà di Michelangelo: senza conflitto non c’è una storia, e senza distruzione non può esistere vera creazione. Ispirandosi a realtà attoriali già confermate, il regista si affida completamente ai suoi volti di punta per trasformare le idee in realtà. Guy Pearce dà vita a uno pseudo-villain davvero particolare, mentre Adrien Brody, travolto da un’emotività molto simile a quella che gli regalò l’Oscar, abbraccia il ruolo con una potenza che basterebbe da sola a reggere tre vite: quella dell’uomo, quella del marito e quella dell’artista. Una potenziale interpretazione da Oscar, da tenere sicuramente in considerazione per la Coppa Volpi.
La sorpresa di Venezia
Quando Alberto Barbera aveva presentato il film come “uno dei suoi preferiti” si sono susseguiti commenti d’ogni tipo. The Brutalist, invece, ha letteralmente sorpreso chiunque: alcuni potranno pensare a un’eccesso di pomposità, o a una focosità forse troppo spinta per le dinamiche della trama, eppure tutti a fine visione trovano qualcosa di utile da portare con sé. Il film di Corbet apre le porte a un mondo intero in cui le idee viaggiano veloci e chi non le insegue rischia di perdersi; per questo propone un racconto tumultuoso, esigente, folle e avvolgente al tempo stesso. La visione della pellicola si fa così sempre più “brutale” (complici alcune scelte registiche che vedono nella carnalità uno strumento utile per massimizzare la tensione) ma anche nei frangenti meno riusciti tutto torna comunque allo spettatore e alle sue sensazioni.
Gli stili si mescolano, tra le ombre di un passato tormentato e l’abisso di un presente incerto, ma nella storia di Toth non basta neppure la speranza di una grandezza futura: il povero László danza in bilico fra vite divergenti e finisce per abusare della propria fallibilità pur di raggiungere un obiettivo che neppure lui saprebbe davvero definire. Quello di The Brutalist è un discorso quanto mai importante e complesso sull’arte e sui creativi, nato da un pensiero che ristruttura e ridefinisce nel nome di un bisogno più forte della morte. Dalla distruzione all’esaltazione, quest’opera rispecchia perfettamente il suo protagonista e chi l’ha creata, rivelandosi figlia prediletta di quel tormento che partorisce meraviglie.
E voi cosa ne pensate di questo? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo la recensione insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!
La recensione in breve
Contro ogni pronostico, Brady Corbet è riuscito a raccontare l'arte e l'artista inserendoli in una grande storia americana. The Brutalist impressiona per la mole della sua produzione ed esalta per il talento dei suoi interpreti, tracciando un percorso quanto mai stimolante sull'ossessione e sullo stato dell'arte. Un'esperienza nel senso più puro del termine, da vivere rigorosamente in sala.
-
Voto Screenworld