In una giornata di fine estate del 1976 era possibile entrare nell’atrio di un piccolo cinema, guardare la programmazione e leggere di questo film americano appena uscito: Taxi Driver. Il titolo era già riecheggiato avendo trionfato, all’alba di quell’estate, al Festival di Cannes. Anche il protagonista, il giovane Robert De Niro, era ormai un nome di spicco, premio Oscar l’anno precedente; più nebulosa, invece, l’aura del regista – un quasi sconosciuto Martin Scorsese.

Quello che nessuno poteva immaginare era un tassista solitario come una delle più potenti raffigurazioni di alienazione e disagio. Era inimmaginabile il ruolo che quel film avrebbe avuto nella storia della settima arte. Entrerà con prepotenza nell’immaginario collettivo, dando un’inaspettata linfa alla “semplice” frase «You talkin’ to me?». Adesso ritorna nelle sale cinematografiche italiane in versione restaurata, a quasi mezzo secolo dalla sua uscita, nei giorni tra il 31 marzo e il 2 aprile.

L’arrivo della New Hollywood e…

Una scena di Taxi Driver (1976)
Una scena di Taxi Driver (1976) – ©Columbia Pictures

Il film Taxi Driver (1976) si inserisce e cavalca l’ondata innovatrice dell’epoca. Infatti l’aria che si respira su Hollywood a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 è di forte incertezza. Il pubblico sta mutando, la Tv guadagna terreno e il cinema deve correre ai ripari. L’influenza del cinema d’autore europeo si fa sentire e offre maggiori libertà artistiche per i registi – si pensi a film spartiacque come Il Laureato (1967), Gangster Story (1967) o Easy Rider (1969). Film di rottura, controversi, radicali che aprono le porte alla Nouvelle Vague americana.

Non è una scuola o un movimento: ha confini molto più sfumati, ma segna comunque una discontinuità con il cinema Classico. Da qui, l’alba di una nuova generazione di registi: Coppola, Spielberg, Lucas, De Palma, Scorsese. Ragazzi che si fanno strada con opere personali, moderne e sperimentali. Tra queste, ovviamente, spicca proprio Taxi Driver, opera simbolo di questa nuova dimensione Hollywoodiana che tende la mano al cinema d’autore europeo senza mollare del tutto la presa dal cinema classico.

…la convivenza con la Hollywood Classica

Una scena di Taxi Driver (1976) con Travis (Robert De Niro) e Betsy (Cybill Shepherd)
Una scena di Taxi Driver (1976) con Travis (Robert De Niro) e Betsy (Cybill Shepherd) – ©Columbia Pictures

L’industria cinematografica statunitense (è innegabile) stava cambiando in quegli anni, eppure la rottura con la Hollywood Classica non è totale. Lo stesso Taxi Driver è una perfetta rappresentazione di questo scenario. Robert De Niro è il nuovo che avanza, portato sulla “spiaggia” hollywoodiana dalla new wave statunitense, affiancato in questo caso da Harvey Keitel e, ovviamente, dal giovane Martin Scorsese. Al tempo stesso, però, Taxi Driver vanta le musiche di Bernard Herrmann, protagonista dell’epopea classica: dall’esordio in Quarto Potere (1941) al sodalizio con Alfred Hitchcock. Una colonna sonora, la sua, che dà un enorme contributo alla costante atmosfera minacciosa che circonda Travis.

Lo Sapevi?

La colonna sonora di Taxi Driver è l’ultima composizione di Bernard Herrmann, che morì appena finite le registrazioni. Il film è, infatti, dedicato alla sua memoria.

A conferma di questa convivenza, vediamo anche come la penna dello sceneggiatore Paul Schrader, tra le tante ispirazioni, subì l’influenza di un altro pilastro classico: Sentieri selvaggi (1956) di John Ford e con John Wayne. Ethan Edwards e Travis Bickle condividono il rancore di una guerra alle spalle e una missione comune: salvare una ragazza, la nipote nel primo caso e Iris (la giovane prostituta interpretata dalla giovane Jodie Foster) nel secondo. Taxi Driver, quindi, rispecchia la realtà hollywoodiana degli anni ’70: controverso, violento e personale, ma memore delle proprie radici.

Scorsese e Schrader: l’incontro di due mondi

Paul Schrader, Martin Scorsese e Robert De Niro sul set di Taxi Driver (1976)
Paul Schrader, Martin Scorsese e Robert De Niro sul set di Taxi Driver (1976) – ©Columbia Pictures

Martin Scorsese, già nel 1976, si era contraddistinto come un regista dal tratto autobiografico, portando sul grande schermo storie di italo-americani. Si pensi a Mean Streets (1973), in cui ritroviamo la coppia De Niro-Keitel ma a parti invertite (in quel caso era Keitel il protagonista). Un tratto che nei decenni a venire avrebbe consolidato ancor di più, ma che in questo caso incontra la sceneggiatura di Paul Schrader.

Nonostante l’ambientazione newyorkese, sembra prevalere il background di quest’ultimo. Scorsese, infatti, proviene da una famiglia italo-americana e da un contesto metropolitano; Schrader, invece, proviene dalla provincia e da una famiglia anglosassone strettamente calvinista (per questo motivo Paul vide il suo primo film a diciassette anni, di nascosto). Il tocco autobiografico dello sceneggiatore emerge ed è robusto – si pensi alle manie religiose di Travis, con i vari richiami al giudizio universale. Schrader avrà nella realizzazione del film un coinvolgimento inedito per uno sceneggiatore.

Lo Sapevi?

L’identificazione di Schrader nel personaggio lo portò a prestare alcuni abiti di scena a Robert De Niro.

Sembra, dunque, propendere verso di lui sia la paternità di Travis che del timbro della pellicola, marcatamente noir. Difatti, Paul Schrader nacque come critico cinematografico e come studioso del cinema. Tra i vari impulsi, oltre al proprio vissuto, si rivelò decisiva anche la vicenda di Arthur Bremer, che nel 1972 tentò di uccidere George Wallace, governatore dell’Alabama e candidato alla presidenza.

Non solo Travis Bickle: New York

Una scena di Taxi Driver (1976)
Una scena di Taxi Driver (1976) – ©Columbia Pictures

Si è appena scritto di come Schrader possa rivendicare la paternità sulla figura di Travis Bickle, ma ciò non vuole sminuire il ruolo di Martin Scorsese. La sua regia, tra le altre cose, ha offerto il perfetto ritratto del secondo protagonista dell’opera: New York, vero personaggio aggiunto. La scrittura di Taxi Driver ha definito tutte le contraddizioni interne del giovane veterano, la regia ha invece ridefinito i contrasti della grande mela. Non è solo uno sfondo, ma rispecchia in tutto la condizione in cui versa Travis. Scorsese lo ha reso un film sulla città, facendone emergere quell’enorme vitalità portatrice di degrado, caos, povertà, criminalità e “immondizia”.

New York ne esce ridimensionata, giudicata, criticata per una modernità che viene rivestita dell’accezione più negativa che gli si possa dare. Un luogo dal quale Travis ne esce alienato, emarginato, privo di quel supporto che bramava con tutto se stesso. New York è inquadrata come un luogo infernale, un’immensa prigione dalla quale Travis non si libera mai. Lo stesso appartamento in cui vive è claustrofobico, caotico e comunque invaso dai rumori della città. Non è un luogo in cui potersi rifugiare dal mondo esterno, ma anch’esso si rivela una prigione che, paradossalmente, non isola dalle minacce del mondo.

Una macchina da presa che comunica

La scena di Taxi Driver (1976) con il cameo di Martin Scorsese
La scena di Taxi Driver (1976) con il cameo di Martin Scorsese – ©Columbia Pictures

Il giovane regista poco più che trentenne, quindi, mostra la capacità di costruire e far parlare l’ambientazione newyorkese. Altra peculiarità che emerge è il sapere comunicare attraverso la macchina da presa. Movimenti e carrellate che non si limitano a mostrare, ma che vogliono comunicare. In un caso, riesce a comunicare scegliendo di non mostrare. Emblematica la scena in cui Travis viene rifiutato al telefono da Betsy. Sono attimi colmi di dolore per il protagonista e, anche per questo motivo, sceglie di escluderlo dall’inquadratura, una delle più significative secondo lo stesso Scorsese. Il lento movimento laterale lascia lo spettatore di fronte ad un corridoio vuoto, anonimo.

Non mostra, abbiamo detto, ma comunica e sottolinea visivamente la sua condizione di isolamento. Un altro esempio in cui Scorsese comunica attraverso la sua regia si ritrova nella scena simbolo del film: il monologo che De Niro improvvisò davanti allo specchio. Il regista, in questo caso, fa uso del Jump Cut, creando dei falsi raccordi di montaggio. Lo stile è tipico del cinema europeo, ma qui è spoglio di quella volontà anarchica tipica di Godard, e rivestito di una sua funzionalità. Travis sta scivolando nell’oblio, sta perdendo sempre più l’equilibrio, è proprio a questa condizione mentale che rimanda la scelta registica di Scorsese.

Il filtro di Travis

Una scena di Taxi Driver (1976)
Una scena di Taxi Driver (1976) – ©Columbia Pictures

Come già sottolineato, il film non fu la migliore campagna pubblicitaria per la città di New York. Una città pericolosa, piena di insidie e criminalità. È necessario, però, sottolineare l’impostazione di quest’opera. Martin Scorsese ha riconosciuto in seguito che tutto quello a cui assistiamo viene filtrato dalla prospettiva dello stesso Travis. Pensieri e stati d’animo di altri personaggi non rientrano in alcuna scena, Paul Schrader delinea perfettamente i sentimenti e le contraddizioni del protagonista, nelle quali gli stessi Scorsese e De Niro si identificarono. Scorsese avvertì la necessità di esprimere visivamente quelle delusioni e quella solitudine.

Il risultato fu quella dimensione allucinatoria, una sospensione tra realtà e fantasia, una perenne paranoia figlia di una percezione alterata. E non può essere altrimenti, considerata l’insonnia di cui soffre Travis, che lo porta a lavorare di notte e ad assumere delle pillole per rimanere sveglio. La regia combinata all’eccezionale interpretazione di Robert De Niro catapulta lo spettatore in uno strano mondo fatto di ombre. Quelle ombre che trascinano Travis nel buio di una violenza fine a stessa, coperta di un leggero velo di giustificazione: ripulire la città.

Travis & Arthur: due eroi violenti

Una scena di Joker (2019) con Joaquin Phoenix e Robert De Niro
Una scena di Joker (2019) con Joaquin Phoenix e Robert De Niro – ©Warner Bros. Pictures

Nel maggio 1976, con la vittoria della Palma d’Oro, è iniziato il percorso di questo film. E, come per altre pietre miliari del cinema, dopo quasi cinquanta anni, il percorso non vede una fine. Taxi Driver ha marchiato a fuoco l’industria cinematografica, la sua influenza sta tuttora lasciando la propria scia. Potremmo citare molti film che hanno richiamato al capolavoro di Scorsese, ma essendo uno dei più recenti, possiamo pensare a Joker (2019) di Todd Phillips (nel cast ritroviamo anche lo stesso De Niro). Le vicende di Arthur Fleck e Travis Bickle seguono percorsi analoghi: un protagonista che soffre di un disagio psicologico, che lamenta l’assenza di supporto e l’emarginazione da parte della società. Troviamo poi una Gotham (ricostruita proprio a New York) che iconograficamente e visivamente tende la mano alla città alienante di Travis.

Quindi, due personaggi invisibili agli occhi della società alla ricerca di una rinnovata visibilità, all’insegna della violenza. Violenza che, con timbri differenti, garantirà loro un’aura di eroismo. Arthur cavalca l’ondata di violenza, che lui stesso ha provocato. Una violenza di stampo sociale che si propaga in tutta la città e di cui lui, sotto le vesti del Joker, è diventato il simbolo. Travis, invece, fallito l’attentato al senatore, mira a strappare Iris dalle grinfie di Sport. Percorse una parabola quasi ironica, che lo portò dal tentato omicidio di un politico al salvataggio di una giovane prostituta, così svestì i panni dell’assassino per indossare quelli di vero eroe.

 

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Classe 1995. Una volta ottenuto un diploma in Ragioneria ed una Laurea Triennale in Scienze Politiche, Luca, che dall'adolescenza avverte una sempre maggiore vicinanza al mondo del Cinema, decide di dare spazio a questa passione. La sterzata avviene prendendo parte ad una compagnia teatrale amatoriale e con una Laurea Magistrale in Scienze dello Spettacolo all'Università di Firenze. Un'iniziale e forte attaccamento all'accoppiata De Niro-Scorsese e ai loro Gangster Movies, si è con il tempo rivelato vero amore per la Settima Arte e molte delle sue sfumature.