Sono passati 46 anni da quando Taxi Driver si portò a casa la Palma d’Oro, seducendo critica e pubblico con una storia di malessere e allucinazione in cui l’autodeterminismo di un’eroe perdente si scontrava con un sogno americano ormai frantumato dalla crisi sociale, politica e culturale degli anni Settanta. Il Travis Bickle di Robert De Niro è infatti uno dei tanti emarginati, alienati e solitari, che popolano il cinema americano di quegli anni; una tendenza che oggi chiamiamo New Hollywood ma che, allora, era piuttosto un’esigenza: quella di provare a dare forma a un mondo smarginato e corrotto in cui gli ideali si infrangono.
New York, New York
Quando si pensa a Taxi Driver vengono in mente subito loro: De Niro e Scorsese, qui praticamente agli albori del loro sodalizio creativo, ma non dobbiamo dimenticarci che questo film non esisterebbe senza il contributo di Paul Schrader che scrisse la sceneggiatura del film ispirandosi tanto a una vicenda di cronaca – quella di Arthur Bremer che nel 1972 attentò alla vita di George Wallace, il governatore dell’Alabama, quando a un suo malessere personale che lo portò davvero a vagare di notte toccando con mano l’inquietudine che si respirava nei quartieri più malfamati della città. Qualcosa che, successivamente, De Niro, da bravo attore del Metodo, volle replicare prendendosi la patente da tassista così da poter girare per una New York sporca e decadente, molto diversa da come appare oggi.
Inquietante e affascinante, ma nonostante tutto sempre amatissima da Scorsese New York è la città che non dorme mai perché – come Travis, non riesce a dormire. Le luci rosse dei teatri hanno perso il loro fascino e i cinema porno danno la fugace illusione di poter sfuggire a una solitudine costante. La stessa in cui, Travis un ex marine reduce dal Vietnam, prova a galleggiare per poi annegare in un delirio d’onnipotenza.
Paranoia e alienazione
Dopo essere tornato dalla guerra Travis non riesce a reinserirsi nella società e la sua ansia cronica lo porta a trovarsi lavoro come tassista notturno conducendo chiunque ovunque a New York. Qualcosa che per gli anni Settanta non era propriamente scontato, vista la pericolosità di molti quartieri della Grande Mela. Alla luce di un sole che nasconde quella sporcizia che esce fuori alla luce dei neon, Travis conosce Betsy (Cybill Sheperd), una ragazza che lavora nello staff di un senatore candidato alle elezioni, e se ne invaghisce, mentre di notte incontra una prostituta tredicenne, Iris, (Jodie Foster) che cerca di fuggire dal suo protettore (Harvey Keitel).
Sempre più solo, incapace di comunicare con il prossimo e pervaso da un malessere che lo porta ad avere atteggiamenti paranoici, Travis inizia a scivolare in un abisso che alimenta la sua rabbia nei confronti di una società violenta e moralista al contempo. Coltivando un odio sempre più forte per l’ipocrisia dilagante di un mondo ai suoi occhi de-umanizzato e privo di valori, il protagonista si erge così a giustiziere pianificando di sparare al senatore e di salvare la giovane Iris. Un exploit di violenza che ci conduce a un finale liberatorio ed enigmatico, che fa suo quel continuo oscillare tra sogno e realtà che caratterizza tutto il film.
Cosa resta di Taxi Driver
Ci sono opere talmente potenti che, a distanza di tempo, riescono a comunicare non solo quello che potevano rappresentare al momento del loro arrivo, ma anche sentimenti universali che vanno al di là di qualsiasi sottotesto storico e/o culturale. Taxi Driver è ovviamente una di queste e, sebbene l’immagine di De Niro che, pistola alla mano, sfida se stesso guardandosi allo specchio sia ormai cult – e tra l’altro frutto di una sua improvvisazione, è anche bello riflettere su quello che questo film è in grado di comunicare oggi.
Perché oltre a una prova d’attore protagonista magistrale – senza dimenticare né Harvey Keitel, né Cybill Sheperd né tantomeno Jodie Foster che, in modo diverso, danno vita a personaggi tanto complessi quanto controversi, Taxi Driver è anche una lezione di cinema con Scorsese che alterna inquadrature in stile espressionista ad altre in cui emerge un realismo quasi ruvido. Una scelta che permette al regista di far sì che il tono della narrazione resti sospeso tra le già citate suggestioni oniriche e la crudezza del reale. Qualcosa di simile Scorsese l’avrebbe rifatto solo anni dopo con Fuori orario, film in cui la città avvolge il protagonista tra inquietudini e assurdità. In Taxi Driver quest’ultimo aspetto chiaramente non c’è e quello che resta è un senso di claustrofobia che ci parla di paura, solitudine e ci fa riflettere sul senso stesso di follia. Un aspetto che viene meravigliosamente amplificato dalla tromba solitaria di Bernard Herrmann che fa da contrappunto a un viaggio allucinato che, ancora oggi, ci affascina e ci fa riflettere.
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