Sopravvalutato.
Una parola abusata, un giudizio comune, un’etichetta incollata alla copertina di Avatar da quel gennaio 2010, quando il film di James Cameron tanto atteso aveva risvegliato l’interesse di un pubblico numerosissimo, diventando il più grande incasso della storia del cinema.
Ma oltre ai numeri cos’è rimasto di quel film? Avatar non sembra, apparentemente, aver lasciato il segno, se non una dose di nostalgia legata alla meraviglia del grande schermo e al 3D immersivo (che comunque non è poco) e lo stanco sarcasmo che continua a definirlo “il film dei Puffi” o “Pocahontas nello spazio”.
Quasi tredici anni dopo, la colla di quell’immeritato adesivo sembra resistere ancora, anche se appare giustamente seccata. Con un secondo capitolo (e ulteriori tre previsti) alle porte, è arrivato il momento di strappare quell’etichetta ingiallita e finalmente svegliarci dal pigro torpore della memoria. Perché Avatar, dopo tutto questo tempo, non solo è ancora rilevante, ma ha acquisito una nuova profondità che lo rende non solo un’opera da riscoprire e rivalutare, ma anche il film perfetto per una nuova generazione di spettatori.
Quel gioiello di Pandora
Siamo onesti: uno dei grandi meriti del film di James Cameron è stato quello di farci vivere in un mondo alieno affascinante e memorabile quale quello di Pandora, un vero e proprio gioiello non solo di tecnica digitale, ma anche d’immaginazione. Con le sue piante bioluminescenti, una fauna caratteristica e una cura del dettaglio straordinaria, è impossibile non rimanerne affascinati. Forse proprio a causa di una trama formulaica che non richiede particolare attenzione per essere seguita e che accoglie lo spettatore nell’ambientazione.
Ponendo le radici su una delle storie più antiche del mondo (il colonialista cinico che scopre una cultura diversa dalla sua rimanendone definitivamente legato), Avatar riesce a crescere come un gigantesco albero risultando immortale e -perdonate il gioco di parole- sempreverde.
Rappresentando il clan Na’vi degli Omaticaya come una tribù legata all’ambiente, dal forte credo spirituale (la divinità Eywa sta in tutte le cose), e che ha come proprio stile di vita un grande rispetto per tutto ciò che è appartenente alla natura, Avatar sembra cogliere una sensibilità contemporanea appartenente soprattutto alla generazione Z. Sarebbe davvero impossibile non leggere il film oggi attraverso il risveglio ambientalista che negli ultimi anni si è fatto sempre più urgente e di cui Greta Thunberg si è fatta icona portavoce. A maggior ragione la visione di Cameron acquista un ulteriore senso di preveggenza se consideriamo che ben 13 anni fa, nel prologo escluso dalla versione cinematografica, ma presente nell’estesa in home video, aveva già immaginato un pianeta Terra vittima di forti cambiamenti climatici, che hanno portato all’estinzione di molte specie animali e che stanno mettendo a rischio l’intera umanità.
Raggiungere Pandora equivale a riappropriarsi di quella genuina sensibilità verso il mondo che ci circonda, crearne un legame empatico e mettere da parte le preoccupazioni di una cupa realtà. Tutto è colorato e meraviglioso a Pandora, almeno fino all’arrivo di quell’umanità militare, patriarcale e puramente capitalista, insensibile verso gli indigeni e verso i giovani.
Il sacro femminile
C’è uno scontro in Avatar che rappresenta, quasi sotto traccia, tutti i maggiori conflitti delle nuove generazioni. Da una parte ci sono gli uomini, rappresentati dal marine Quaritch e dal capo della RDA Parker, che risolvono i loro personali problemi, per di più economici, con pallottole e bombe, spinti solamente da un obiettivo che non tiene conto delle vite altrui. Dall’altra ci sono le donne, la dottoressa Grace e Neytiri, entrambi madri putative per Jake Sully, che a inizio film si trova tra questi due poli. Il primo fatto di azione e menefreghismo egocentrico, il secondo fatto di comprensione ed empatia verso l’altro.
In un mondo alieno in cui persino la divinità è femminile (Eywa), dove è la natura ad avere un ruolo centrale, dove le azioni più importanti per il proseguimento della trama avvengono grazie alle donne (Grace instaura il dialogo, Neytiri accoglie lo straniero, la madre di quest’ultima lo salva nel momento opportuno spinta da fiducia) ci si rende conto di come Avatar abbia sottolineato, in anticipo sui tempi, la rappresentazione di un femminile sacro ed emancipato.
Soprattutto nel finale è Neytiri che dà il colpo di grazie a Quaritch per poi accogliere il corpo umano di Jake tra le sue braccia. Un’immagine che richiama la sacralità della Madonna col bambino (o, al rovescio, la Pietà, ricordiamo che Eywa sin da subito riconosce le qualità di Jake come un eletto) e che sancirà definitivamente la nuova nascita di Jake come Na’vi.
Questione di connessione
Capire l’altro, dialogare con una cultura diversa e ritrovare punti in comuni su cui poggiarsi. Un messaggio di cui oggi abbiamo fortemente bisogno e che in Avatar si manifesta in due modi, uno fisico e tangibile e uno legato alla parola.
La connessione tra Na’vi e animali non si differenzia con quella con la spiritualità o quella di un legame d’amore. Tutte portano lo stesso nome: tsaheylu. Un tipo di legame che non trova giudizi o contrasti di alcun tipo e che acquista una dimensione di pansessualità.
Ma è soprattutto l’importanza di sentirsi appartenenti a una rete interconnessa che dona ad Avatar il maggior elemento di contemporaneità, specialmente verso le nuove generazioni che – lo ricordiamo – non hanno vissuto il fenomeno nel lontano 2009.
Ognuno di noi, una volta connesso alla rete, si costruisce un “avatar”, una figura virtuale che funge da alter ego. Dodici anni fa, con il boom dei social network e il dominio dei forum si potevano trovare alcune similitudini, oggi possiamo renderci conto che il tutto ha acquisito ancora più spessore. Le generazioni di giovanissimi si connettono attraverso community virtuali, poco importa se attraverso TikTok, gli influencer o giocando in gruppo su Fortnite o Elden Ring (un gioco che ha più di qualche punto di contatto con l’esperienza di Jake Sully a Pandora). Più che nel mondo reale, complice anche gli anni appena trascorsi che hanno rivoluzionato il modo di comunicare e rapportarsi, è in quello virtuale che è nata una vera e propria comunità.
Come gli alberi di Pandora, connessi tra loro. Come i Na’vi che, nonostante le differenze, si sentono parte di un popolo unico.
Svegliarsi
Sia chiaro che non stiamo giudicando o commentando in termini negativi la scelta di appartenere a queste community virtuali, anzi. Se questo avviene è per una mancanza di vero dialogo da parte delle generazioni adulti nei confronti dei giovanissimi, che si sentono dei veri e propri alieni, incapaci di essere visti. Un’incomprensione che passa dal confondere un Albero Casa con uno dei milioni di alberi possibili dove vivere e che arriva a considerare le nuove generazioni come “pezzi di carne” da sfruttare.
Jake Sully, il protagonista che non viene considerato perché incapace di camminare, può dimostrare il proprio valore in un altro mondo e attraverso una comunità che lo comprende. È quello che avviene nel nostro mondo, dove le passioni dei giovani, ma anche la loro forma mentis, di tutt’altra sensibilità verso un senso civile ben più aperto e diverso, viene costantemente giudicata secondo vecchi parametri di un mondo ormai estinto.
Non si fa fatica a ritrovare, quando si parla di giovani che “non hanno voglia” di lavorare, che usano i videogiochi come cocaina o in qualche modo “deludono” (e usiamo le virgolette per sottolineare il termine assurdo) i loro padri, lo stesso giudizio che colpisce Jake, Grace, Spellman e gli Omaticaya da parte di Quaritch e Parker, che tentano di mantenere uno status quo che non possono sorreggere. E alla fine del film gli umani vengono rispediti sulla Terra ad affrontare la loro propria fine, conseguenza di troppo tempo formato da orecchie sorde e occhi ciechi (“Io ti vedo” a questo punto assume un’ulteriore importanza).
Nel corso del film, la vita su Pandora viene affrontata come un sogno, qualcosa di separato dalla realtà, un mondo quasi utopico. Oggi, proprio quel finale che sembrava incentrato su un singolo protagonista, acquista un significato più collettivo e comunitario. Come se le nuove generazioni potessero trovare, in una finestra cinematografica, la possibilità di sognare un mondo molto simile a quello che intendono costruire.
Per poi potersi finalmente svegliare, e farne parte.
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