Quando nel 1974, Sylvester Stallone scrisse in tre giorni la sceneggiatura di un film su un pugile italo-americano, lo fece forse anche per la rabbia di essere stato scartato a un provino come attore ed essersi sentito rifiutare un’altra sceneggiatura da lui scritta e per lui ben più importante come Taverna Paradiso (con il wrestling al posto del pugilato), che realizzerà qualche anno dopo esordendo da regista tra varie manipolazioni di montaggio e script imposta da Universal. Ma in quel provino doppiamente andato male, i produttori Irwin Winkler e Robert Chartoff intuirono un talento e dissero a Stallone di portare loro qualcosa di simile.
Ecco come nacque Rocky, o meglio la sua bozza: il pugile italo-americano Robert Balboa era un tipo disperato, trasandato e spigoloso in un mondo privo di buoni sentimenti, che non trovava il riscatto nel pugilato, anzi si ritirava dall’incontro con Apollo per non finire preda dell’industria sportiva, andando via abbracciato ad Adriana, perfetta allegoria del malessere del suo autore. Sasha Czack, moglie di Stallone all’epoca, leggendo il copione disse al marito di cambiarlo, di renderlo più emozionante: in quel momento, quando Stallone acconsentì nacque la leggenda di Rocky, che due anni dopo divenne un film. Stallone lottò per preservare la sceneggiatura così com’era, per imporsi come attore protagonista su nomi del calibro di Robert Redford, Burt Reynolds e James Caan, tanto da cedere i diritti della sua creatura per 75 mila dollari, il suo compenso da attore e il 10% degli incassi (cosa di cui oggi ancora si pente).
Quel film a budget medio-basso (1,1 milioni di dollari contro i 6 di media per un film hollywoodiano) incassò 225 milioni, diede il via a una saga che ha generato cinque seguiti e uno spin-off composto da tre film, di cui l’ultimo Creed III (il primo della saga in cui Stallone non compare come attore) è arrivato nelle sale in questi giorni, continuando a generare amore e passione da parte degli spettatori. Come si spiega quindi un amore così duraturo?
La verità intima di un personaggio inventato
Una prima risposta potrebbe essere il senso di verità. Nello scrivere Rocky, Stallone si ispirò a un vero pugile semi-sconosciuto, Chuck Wepner, che incontrò Mohammed Alì pensando di finire al tappeto dopo pochi minuti e invece resistette 15 riprese, perdendo solo all’ultima per KO tecnico. Wepner ovviamente è solo il calco su cui Stallone ha costruito il suo Rocky (nome da combattimento ispirato a un altro vero campione, Marciano), ma dal vero boxeur ha preso il coraggio e l’abnegazione praticamente senza fine, come pure un atteggiamento che non era quel del duro o dello spaccone a tutti i costi, ma dell’uomo che la vita ha segnato e che pure non ha paura di esporre le sue fragilità, i suoi fallimenti, i suoi limiti fisici e psicologici.
Stallone conosceva bene il mondo delle palestre, i bassifondi di Filadelfia in cui si trasferisce all’età di 15 anni e quella conoscenza arriva intera dentro la descrizione ambientale del film, che oggi come nel ’76 colpisce proprio per il modo in cui sono descritti i luoghi e i personaggi, come fossero strappati di peso alla realtà.
L’effetto di realtà poi è legato anche al fatto che in Rocky c’è dentro un condensato di ciò che Stallone ha vissuto e ha provato sia come ragazzo che come attore, quel senso di inadeguatezza che sfocia nell’impotenza di fronte a un mondo che non va come vorrebbe che sembra non capirlo. È proprio questo senso di verità che supera ogni realismo composto in studio o programmaticamente che rende così travolgente il percorso di riscatto (certo, le musiche di Bill Conti aiutano non poco). In Rocky, Stallone mette dentro sé stesso più di quanto abbia mai fatto con ogni altro suo personaggio e ciò vale per tutti i film della serie, non solo il primo, basti pensare alla commozione bruciante che si prova in Rocky Balboa (2006, forse il più bello dei seguiti) o in Creed II (2018) e il fatto di poter rivedere un amico che è una persona prima di un personaggio, che si stima e per cui si prova affetto specie perché ne abbiamo seguito gli alti e bassi, è una delle chiavi del lungo successo dello “Stallone italiano”.
Il nuovo sogno americano
Un’altra di queste chiavi è nascosta ancora più alle radici del personaggio e dei suoi valori. Quando è stato concepito Balboa, gli USA e il cinema americano erano in un momento peculiare: con lo scandalo Watergate e la fine della guerra nel Vietnam, i cittadini americani avevano pochissima fiducia nel loro paese, in ciò che rappresentava, nei modi tradizionali con cui lo stile di vita americano era raccontato, non a caso il nuovo cinema hollywoodiano che si riconosceva nei nomi e nei modi della New Hollywood aveva raggiunto il successo e la considerazione critica nel mondo con storie di emarginati, con le denunce degli scandali politici, con la riflessione sulla realtà fuori dalle griglie del pensiero conservatore che per almeno 40 anni aveva dominato a Hollywood. Sembrava non essere più tempo di eroi e di storie che li celebrassero, a meno fin quando Lo squalo (’75) e poi Guerre stellari (’77) cambiarono questa percezione; Rocky, che esce al cinema proprio a metà tra i due blockbuster, sembra quasi fare da ponte tra due mondi cinematografici differenti mostrando il mondo dei disperati che si nutrono di un passato per quanto deludente non potendo avere più presente o futuro, ma al tempo stesso ponendo le basi per il riscatto di un uomo e di un paese (le stelle e strisce sono ovunque, svolgendosi il film a Filadelfia, luogo della dichiarazione d’indipendenza americana).
Rocky è la ridefinizione del sogno americano ad altezza dell’uomo medio contemporaneo, che non crede più che il re del nulla possa diventare campione del mondo o presidente della nazione, ma che comunque può avere una chance, un momento di gloria e di riscatto, se ci crede. Stallone riscrive i codici dell’eroe hollywoodiano (in curiosa combinazione con quelli di Spielberg) fuori dalle logiche del superuomo – almeno nei film migliori della saga, escludendo quindi il terzo e il quarto – portandoci a parteggiare per una persona sbilenca, spigolosa, anche sbagliata, ma vitale e in buona fede, capace di amore, cura e generosità. Ha portato lo spettatore a tifare di nuovo, ha trasformato i cinema di tutto il mondo in un palazzetto da cui poter mandare un messaggio positivo, ma non cieco. Non è la propaganda americanista quella di Rocky, perché Stallone non deve vendere un modello di vita imposta dai governi – come accadeva nell’epoca d’oro degli studios -, ma perché crede fortemente in quel modello e lo tramuta in cinema sincero.
E a chi ci dice la verità, almeno la sua verità, facendoci ridere, piangere ed esultare non potremo mai smettere di voler bene.