Siamo onesti: tra le tante immagini iconiche che la storia del cinema ci ha regalato ce n’è una che mai avremmo pensato di ricordarci a distanza di due decenni. Stiamo parlando di Milla Jovovich, un abito rosso lungo il corpo e un fucile gigantesco in mano. È l’immagine più classica di Alice, personaggio nato dalla mente di Paul W. S. Anderson e protagonista della saga cinematografica Resident Evil. Una saga che compie vent’anni e che, nonostante la qualità media davvero bassa, sembra essere riuscita nel miracolo di rimanere impressa nella memoria degli spettatori. Almeno per quanto riguarda il primo capitolo, forse ancora oggi il miglior film di Resident Evil possibile al cinema (con buona pace del recente reboot che sembra essere passato senza lasciar traccia).
Eppure, degli elementi che hanno forgiato la saga videoludica, più attenta alla tensione, al mistero, all’orrore nel senso più puro, tra mutazioni genetiche e laboratori segreti tipici dei film di serie B, il film di Anderson non ha praticamente nulla. Un vero e proprio tradimento del materiale di partenza che, però, ha dato vita a un film a cui non si può voler male. Nemmeno dopo vent’anni.
Pronti, orrore, azione!
Era il 2002 e l’unica influenza contagiosa era quella ereditata da Matrix, del film action con personaggi vestiti con giacche di pelle e la voglia di scaricare adrenalina attraverso lo schermo cinematografico. Appare naturale che, per un regista abituato a una dimensione più action, la saga cinematografica di Resident Evil avrebbe rinunciato alla dimensione più perturbante del videogioco originale. Il risultato è un cambiamento netto rispetto al materiale di partenza, di cui mantiene solamente qualche nome, la presenza di zombie e mutanti e qualche easter egg per i fan. Per il resto, Resident Evil (il film) è quasi una creatura a sé stante, inserita a pieno titolo nelle mode cinematografiche del momento, compresa la colonna sonora elettronica a cura di Marilyn Manson.
Il laboratorio tecnologico compreso di trappole mortali (alcune delle quali simili a quelle comparse nel piccolo cult Cube – Il cubo, di Vincenzo Natali), la presenza di un cast muscolare capace di dare vita a sequenze spettacolari, gli zombie come figura non tanto orrorifica o di critica sociale, ma come perfetto bersaglio inumano per le pallottole sono tutti elementi che verranno da lì in poi sviluppati ancora di più nei sequel, sempre più ipertrofici e digitali. Il primo capitolo, però, riesce a rimanere in un equilibrio piacevole, a cavallo tra l’intrattenimento più ignorante e il divertimento più semplice. Sembra quasi che, con l’assenza di momenti gore e un gusto per l’autocensura (lo si può vedere nel modo in cui finisce il prologo o come Anderson evita lo splatter), il film voglia rivolgersi a una platea vastissima, colpendo il grado zero del piacere della visione. Tu chiamalo, se vuoi, guilty pleasure, anche se non bisogna sentirsi in colpa per questo.
Viva i film “brutti”
L’onestà di Resident Evil spiazza ogni volta che lo si rivede. Oggi, con i blockbuster che devono costringersi a essere considerati dei film-evento, sembra difficile credere che una pellicola semplice come quella di Paul W. S. Anderson possa funzionare così bene. Certo, siamo ben lontani dal poterlo considerare un bel film e alcune scelte narrative, nonché soprattutto gli effetti visivi, mostrano il fianco al tempo trascorso dalla prima uscita. Eppure, proprio grazie a un personaggio come quello di Alice (il cui fascino dato dall’interpretazione di Milla Jovovich sembra vincere la prova del tempo), protagonista smarrita e costretta a lottare per la sopravvivenza senza rendersene conto, lo spettatore non può fare a meno di esserne coinvolto.
Quasi fiero della propria superficialità e bruttezza, Resident Evil funziona oggi come allora, regalando 100 minuti schietti, dritti al punto, appartenendo a un tipo di film che, silenziosamente e senza far troppo rumore, rimangono nella memoria collettiva. Due esempi su tutti: il finale apocalittico, che ancora oggi lascia il pubblico soddisfatto durante i titoli di coda e l’enorme eredità che sembra aver lasciato, nonostante tutto. Perché il trailer della nuova serie Netflix, in uscita a luglio 2022, sembra ispirarsi all’opera di Anderson, ancora una volta distanziandosi dal materiale videoludico e dal recente reboot “più fedele”. E forse è il premio maggiore di un capostipite che a suo modo è diventato iconico, un film “brutto” ma contagioso, come i mutanti presenti al suo interno. Vent’anni dopo, siamo ancora delle Alice smarrite.