Dopo l’anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, dove è stato presentato tra gli eventi di gala, arriva in sala tramite la Festa del Cinema di Roma, di cui è il titolo d’apertura, l’atteso adattamento del romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega nel 2020. È il nuovo film di Francesca Archibugi, di cui parliamo in questa nostra recensione de Il colibrì.
Il colibrì
Genere: Drammatico
Durata: 126 minuti
Uscita: 14 ottobre 2022 (Cinema)
Cast: Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Nanni Moretti
La trama: brandelli di esistenza
Come il romanzo di Veronesi, il film racconta in modo non lineare la vita di Marco Carrera, oculista toscano la cui esistenza è costellata da disgrazie varie, a cominciare dalla morte della sorella quando lui è ancora adolescente, un trauma dal quale non si riprenderà mai del tutto. Due i punti di riferimento più o meno fissi nella sua vita: l’amica d’infanzia Luisa, con cui ha un rapporto epistolare platonico anche se entrambi vorrebbero che fosse molto di più, e, più avanti negli anni, la nipote, per la quale funge sostanzialmente da genitore surrogato date le assenze ripetute della madre di lei.
Il cast: fa tutto Favino
Carrera ha il volto di Pierfrancesco Favino, prevedibilmente gigantesco e al contempo sorprendente in una parte che richiede diverse sfumature emotive data la struttura del progetto. Completano il cast figure del calibro di Laura Morante, Kasia Smutniak, la francese Bérénice Bejo nei panni di Luisa, Benedetta Porcaroli e Massimo Ceccherini. Inoltre, nei panni di uno psicanalista, recita Nanni Moretti, coinvolto per la seconda volta – e nuovamente solo come attore – nella trasposizione di un libro di Veronesi dopo essere stato protagonista di Caos calmo nel 2008.
Confusione emotiva
Supportata dal collaboratore abituale Francesco Piccolo e da Laura Paolucci (già adattatrice di Caos calmo), Francesca Archibugi traspone sullo schermo l’approccio frammentario, mnemonico, di Veronesi, con i flashback guidati da criteri emotivi anziché narrativi (con un momento in particolare che si ripete periodicamente per arrivare a una sorta di catarsi).
Una scelta audace ma controproducente, perché la natura segmentata della progressione narrativa smorza l’impatto emotivo della stessa, trasformando il tutto in un gioco intellettuale che, lontano dalle pagine della prosa dello scrittore, non colpisce con la stessa incisività e risulta alquanto freddo, sfiorando appena la superficie dei temi esistenziali trattati.
Squilibrio recitativo
Ne risentono soprattutto gli attori che, pur avendo archi narrativi solidi, non riescono a portarli a compimento con efficacia a causa di un meccanismo che spezza anche le loro performance, fatta eccezione per Favino che, data la natura del suo personaggio, ha un percorso coerentemente coinvolgente per l’intera durata della pellicola e rimane magnetico anche quando Carrera, in età avanzata, è ormai solo l’ombra di ciò che era.
Un gigante all’interno di un progetto che, nonostante le buone intenzioni, rimpicciolisce tutto il resto, penalizzando prestazioni come quella di Moretti, altrimenti molto a suo agio nella parte assegnatagli, e di Bejo, il cui non indifferente feeling con le battute in italiano meriterebbe un contesto capace di valorizzarlo.
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La recensione in breve
L'ambizione del romanzo di Sandro Veronesi è in evidenza, ma la forma cinematografica non rende del tutto giustizia alle parole dello scrittore, nonostante un cast solido dominato da un magnifico Favino.
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Voto ScreenWorld