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    Diabolik, la recensione: i fratelli Manetti e il mito del Re del Terrore

    Claudio GarganoDi Claudio GarganoDicembre 17, 20211 commento7 min lettura
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    Affrontiamo la recensione di Diabolik con molta difficoltà, perché i fratelli Manetti sono, a nostro parere, i registi a più adatti per il progetto. Grazie alla loro esperienza nel cinema di genere e il loro amore sconfinato per le tavole del ladro creato dalle sorelle Giussani nel 1963, il film rientra in una felice stagione del cinema italiano in cui, da qualche anno, un pugno di autori, registi e produttori (si legga Gabriele Mainetti, Nicola Guaglianone, Matteo Rovere e Sydney Sibilia) sta cercando di portare le pellicole nostrane su binari più internazionali, affrontando il cinema di genere con la serietà (professionale) dovuta, senza però snaturare i tratti essenziali di una tradizione cinematografica tutta italiana. D’altro canto, però, il risultato non è purtroppo all’altezza delle ottime premesse, sebbene non manchino elementi ragguardevoli da sottolineare.

    Diabolik (2021)

    Genere: Poliziesco
    Durata: 133 minuti
    Uscita: 16 dicembre 2021 (Cinema)

    Regia: Manetti Bros.
    Cast: Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea

    La trama

    Un'immagine di Diabolik

    La trama si basa sul terzo albo di Diabolik, pubblicato nel 1963, intitolato L’arresto di Diabolik, nel quale lo spietato ladro fa la conoscenza di Eva Kant, colei che diventerà la sua compagna di vita e di malefatte. Dopo un primo rocambolesco inseguimento con cui viene presentato il taciturno ladro vestito di tuta nera, la prima parte della vicenda ruota attorno ad un diamante rosa, portato a Clerville (l’immaginaria nazione in cui sono ambientate le avventure immaginate dalle Giussani) dalla ricca e bellissima Lady Eva Kant (Miriam Leone): fresca vedova di un facoltoso diplomatico sudafricano, nonché insidiata dal giovane viceministro di giustizia di Clerville, Giorgio Caron (Alessandro Roja), perdutamente innamorato di lei. Il diamante fa gola a Diabolik (Luca Marinelli) e il furto sarà l’occasione per l’incontro con la splendida dark lady Eva. Sulle tracce del ladro si mette l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), l’unico che conosce alla perfezione il modus operandi del ladro e che più volte è andato molto vicino nel catturarlo.

    Un incipit che mette già le carte in tavola

    Se guardiamo l’incipit del film, i pregi e i punti deboli sono già tutti lì. Una jaguar nera (la celebre E-Type) sfreccia lungo le vie notturne di una città europea, inseguita dalle macchine della polizia. Tutto viene ripreso da inquadrature esterne (pochi i camera-car) che seguono l’inseguimento con poche brevi panoramiche. Un’inquadratura all’interno della Jaguar ci svela il guidatore, cioè Diabolik: un primo piano fisso frontale, attraverso il parabrezza, sul volto in calzamaglia del ladro mentre stringe il volante (sembrerebbe realizzato in green screen, cioè col fondale applicato in seguito).

    A vedere uno qualsiasi dei primi film di Bond degli anni ’60 con Sean Connery, per esempio Goldfinger, durante l’inseguimento sulle strade di montagna a bordo della celebre Aston Martin, l’inquadratura è praticamente la stessa: un primo piano fisso frontale di Connery che fa palesemente finta di guidare stringendo il volante, mentre dietro scorrono le immagini retroproiettate del paesaggio.

    Ma torniamo a Diabolik: un’auto della polizia blocca la strada in una strettoia dove la Jaguar, con l’aiuto di una pedana rialzata nascosta, salta le auto delle forze dell’ordine che ostruivano il passaggio. La scena viene frammentata in una serie di inquadrature inverosimilmente lunghe che dilatano temporalmente il salto e richiamano la modalità fumettistica con cui si scompongono le azioni in vignette. L’inseguimento prosegue poi fino ad una strada su un dirupo dove gli inseguitori, guidati dall’ispettore Ginko, vengono beffati per l’ennesima volta da Diabolik. Sul cielo oscuro si staglia infine l’inconfondibile logo di Diabolik.

    Una messa in scena che allontana lo spettatore

    Nell’apertura della pellicola dei Manetti Bros. sono dunque già insiti tutti quegli aspetti che la caratterizzano nel bene e nel male: la perfetta ricostruzione delle atmosfere noir del fumetto originale tramite una fotografia con tagli di luce mozzafiato (della bravissima Francesca Amitrano), una scenografia di forte impatto (di Noemi Marchica), gli splendidi costumi di Ginevra De Carolis, elementi perfetti nel rievocare le atmosfere di un’inesistente città europea degli anni ’60, accompagnati però da una riproposizione filologica delle tavole del fumetto che informa, in modo ingombrante, anche il modo in cui la vicenda è stata costruita filmicamente.

    La scomposizione delle azioni in inquadrature fumettistiche (si veda anche l’attimo di sospensione ogni volta che Diabolik lancia il coltello), nonché il modo di filmare decisamente vintage (con l’uso dello split screen), ispirato in parte ai film di Bond che tanto influenzarono a loro volta Diabolik anche nella gadgettistica, dona certamente all’opera dei Manetti una indubitabile e voluta atmosfera retrò, ma dall’altro allontana anche emotivamente lo spettatore dalle vicende narrate.

    Quelle sospensioni temporali le ritroviamo infatti anche nel modo di narrare la vicenda, e in una messa in scena, fredda, distaccata, compassata, certamente coerente al carattere del ladro professionista, ma incapace permettere allo spettatore di trovare un gancio emotivo per entrare nella vicenda. In un film di questo genere purtroppo non è un problema da poco. Se aggiungiamo anche una trama dalle svolte narrative molto prevedibili, afflitto da un didascalismo eccessivo nella spiegazione di alcuni eventi rievocati in flashback dai personaggi, il livello del film si abbassa ulteriormente. Infine le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi sono decisamente in parte e coerenti alle atmosfere, ma purtroppo vengono usate in modo banale, tonitruante, ovvero sovrastano le scene, accentuandone i toni in maniera didascalica.

    Le interpretazioni

    Anche le interpretazioni risentono dello stesso problema, a cominciare dallo stesso Luca Marinelli, attore eclettico e perfetto nei ruoli più disparati (basti ricordare Lo chiamavano Jeeg Robot, Martin Eden ma anche il dimenticato La solitudine dei numeri primi), ma che qui lavora talmente tanto di sottrazione da lasciar volare via anche il personaggio, che risulta eccessivamente monocorde, per non dire legnoso. È chiaro che risponde a certe caratteristiche del personaggio ma ricordiamo che, nella trasposizione filmica, per le evidenti differenze tra i due linguaggi, qualcosa va necessariamente tradito. Miriam Leone ci ha convinto di più, lavorando anche lei sull’understatement e arrochendo la voce per richiamare forse alcune grandi dark ladies del passato. Valerio Mastandrea nel ruolo di Ginko risulta il più convincente, con quel suo fare alla Maigret che funziona bene in questo contesto. Serena Rossi è molto brava, seppur in un ruolo di donna talmente arrendevole, sottomessa e ingenua da risultare spesso quasi irritante. Altro problema del film sono i ruoli da comprimari curati male, non sappiamo se nella direzione vera e propria o nel casting, ma il risultato è che, come accade purtroppo in molte produzioni italiane, la recitazione dei personaggi secondari abbassano notevolmente la credibilità del film.

    Furore filologico

    In conclusione è come se i Manetti Bros. si siano fatti prendere da un amore così profondo per il materiale originale, da tradursi in un eccessivo furore filologico, realizzando un film senza anima, che poco avvince, se non nella rievocazione di un’epoca, e soprattutto di un immaginario ben preciso, costruito quasi 60 anni fa da un fumetto entrato di diritto nell’immaginario collettivo. A questo punto ci sentiamo di consigliare la pellicola del maestro Mario Bava del 1968, funestata da infiniti attriti col produttore De Laurentiis e da un gusto kitsch quantomai eccessivo (che rientrava però nei canoni dell’epoca) ma che almeno restituiva tutta la violenza di Diabolik con una messa in scena vitalistica, visivamente forsennata e virtuosa, magari ingenua per certi versi, ma che sapeva coinvolgere gli spettatori e coglieva anche l’aspetto selvaggio di Diabolik che qui latita totalmente. Peccato per una grande occasione sprecata.

    Conclusioni

    4.5 Glaciale

    Un film eccessivamente preso dalla ricostruzione filologica di un immaginario ben preciso, da tralasciare il rapporto, fondamentale, col pubblico. Una bella occasione, dalle ottime premesse, purtroppo sprecata.

    • Voto ScreenWorld 4.5
    • Voto utenti (2 voti) 7
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    1 commento

    1. Ben Kenobi su Dicembre 18, 2021 10:43

      Non sono d’accordo con questa recensione. Allontanare lo spettatore è dato come argomento negativo, io lo trovo invece punto di forza sicuramente fvoluto, cercato maniacalmente (come la scena dell’imitazione della voce di Diabolik su quella del cameriere, ripetuta decisamente tante volte). Direi che siamo dalle parti dell’effetto Kubrick: sfiancare l’attore finchè non recita piu’ ma pronuncia roboticamente le battute. Proprio per l’effetto straniamento. Io leggo Diabolik, ma appassionarmi alla vicenda direi che è impossibile, qua l’operazione è simile. Allo spettatore diamo la stessa cosa. E’ un profondo atto d’amore non tanto per il Fumetto e i suoi personaggi, ma per i lettori di Diabolik. QUalsiasi altro approccio avrebbe dato una visione personale. I Manetti, umilmente, se ne sono guardati per rispetto. Voto: 9

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