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    Home » Cinema » Ultime recensioni cinema » Bussano alla porta, la recensione: è solo la fine del mondo

    Bussano alla porta, la recensione: è solo la fine del mondo

    La recensione di Bussano alla porta, il nuovo thriller-horror di M. Night Shyamalan che si interroga su questioni di fede.
    Max BorgDi Max Borg2 Febbraio 20234 min lettura
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    Una scena di bussano alla porta
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    Dopo un primo, fortunato sodalizio con la Disney tra il 1999 e il 2004, e un successivo alternarsi a seconda del singolo progetto, dal 2015 – complice la collaborazione con Blumhouse su un paio di titoli – M. Night Shyamalan è in pianta stabile in casa Universal, avendo firmato con la major un accordo per altri due film dopo il successo dei capitoli conclusivi della trilogia avviata ai tempi con Unbreakable – Il predestinato. Due film che, per l’occasione, segnano anche il ritorno del regista nel territorio dell’adattamento di materiale di terzi: prima un fumetto francese, che è divenuto Old, e ora un romanzo horror, The Cabin at the End of the World, dato alle stampe nel 2018 e trasposto sullo schermo con il lungometraggio che è oggetto della nostra recensione di Bussano alla porta.

    Bussano alla porta

    Genere: Horror
    Durata: 90 minuti
    Uscita: 2 febbraio 2023 (Cinema)

    Regia: M. Night Shyamalan
    Cast: Dave Bautista, Jonathan Groff, Ben Aldridge, Nikki Amuka-Bird, Kristen Cui, Abby Quinn, Rupert Grint

    La trama: quella casa nel bosco

    Frame tratto da Knock at the Cabin

    Una famiglia è in vacanza, e ha affittato una casa in mezzo al bosco. Wen, la figlia adottiva dei due coniugi Eric e Andrew, è fuori a giocare quando si imbatte nel misterioso Leonard, gentile ma anche sottilmente inquietante. Lui è accompagnato da altre tre persone – Adriene, Sabrina e Redmond – e sostiene di avere il compito di affidare un incarico importante a chiunque stia occupando la baita in quel preciso momento. Per l’esattezza, l’apocalisse sarebbe imminente, e per scongiurarla il gruppo che ha preso in affitto la casa dovrebbe sacrificare uno dei loro membri, pena la fine del mondo. Uno scenario che ovviamente non va giù al terzetto, e soprattutto ad Andrew, il quale in passato è finito in ospedale dopo essere stato aggredito da una persona omofoba ed è convinto che la sua famiglia non sia stata scelta per caso, ma per motivi molto precisi legati al bigottismo degli estremisti religiosi…

    Il cast: sette personaggi in attesa dell’apocalisse

    Frame tratto da Bussano alla porta

    Il cast principale è costituito interamente dai sette occupanti della baita. I quattro intrusi sono Dave Bautista, ormai sempre più lanciato come interprete drammatico, con livelli di maturità che arricchiscono il nucleo emotivo del film; Nikki Amuka-Bird, attrice inglese di origine nigeriana che è stata diretta da Shyamalan nel precedente Old; Abby Quinn, apparsa nel Piccole donne di Greta Gerwig; e Rupert Grint, simpaticamente perfido e alla seconda collaborazione con il regista dopo la serie televisiva Servant, disponibile su Apple TV+. I due padri sono invece un intenso Jonathan Groff, noto per Mindhunter e il franchise di Frozen (è la voce di Kristoff in inglese) e l’altrettanto potente Ben Aldridge, che interpreta Thomas Wayne nella serie Pennyworth, mentre Wen è la piccola e carismatica Kristen Cui. Come da consuetudine, Shyamalan si è ritagliato un cameo, questa volta su uno schermo televisivo.

    Un altro tipo di home invasion

    Sin dalla rivelazione internazionale con Il sesto senso nel 1999, Shyamalan si è sempre fatto notare e ammirare per la grande precisione con cui costruisce ogni singola inquadratura, attirandosi paragoni non del tutto fuori luogo con Hitchcock per come si serve dello spazio e del posizionamento di oggetti e persone per creare qualcosa di geometrico e al contempo intriso di pathos e calore umano. Bussano alla porta non fa eccezione, grazie all’eccellente lavoro del direttore della fotografia Jarin Blaschke, che dalle scogliere di The Lighthouse passa ai boschi ma rimane fedele al principio della suspense e della follia che si accumulano al chiuso. È una collaborazione impeccabile, che sul piano visivo dà vita a una delle opere più affascinanti del regista, rinvigorito dal recente ciclo di film dal budget più contenuto dopo i pesanti flop dei suoi aspiranti blockbuster.

    Questione di fede

    Frame che ritrae il volto di M. Night Shyamalan

    Dove invece l’operazione scricchiola è nella scrittura, perché anche senza conoscere il romanzo – che differisce in più punti cruciali dall’adattamento che Shyamalan ha sostanzialmente riscritto da zero una volta assunto dalla Universal – è evidente una certa ritrosia nell’andare fino in fondo con le implicazioni esistenziali di una premessa che, nella versione in prosa, si tramutava in grande e inquietante riflessione sulla natura umana in circostanze a dir poco disperate. Un coraggio che il cineasta, forse mosso da istinti commerciali (pur avendo realizzato un film che non si rivolge a un target più giovane), ha semplificato in maniera quasi brutale, epurando il lungometraggio dell’elemento catartico che qui stenta ad arrivare. Ironia della sorte, dato l’argomento, si potrebbe dire che non ha avuto abbastanza fede.

    La recensione in breve

    6.5 Titubante

    Formalmente elegante come sempre, il nuovo film di M. Night Shyamalan è un thriller per lo più efficace, ma a tratti smorzato da una scrittura che non osa abbastanza con il materiale a disposizione.

    • Voto ScreenWorld 6.5
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