Di Silverio Gama è rimasta l’ombra. Un’ombra che cammina a fatica su un terreno deserto, vola in cielo e poi ripiomba con i piedi per terra. È questa l’immagine suggestiva che apre il nuovo film di Alejandro González Iñárritu. Una sequenza d’apertura emblematica, che riesce a riassumere la parabola di una vita intera. Quella di un uomo che è partito, è tornato, ma forse non se ne è mai andato davvero. Incapace di tagliare il cordone ombelicale che lo lega ancora al suo amato, odiato Messico.
Si apre così un’opera che riesce a filmare l’infilmabile: il senso di colpa di un uomo che se ne è andato da casa sua e non si riconosce più. Un uomo che si è smarrito lungo la strada, quasi evaporato come un fantasma. Non potevamo che iniziare così la nostra recensione di Bardo, in concorso a Venezia 79, provando a condividere la forza evocativa di un film visionario, dolente e surreale. Una potente e densissima opera autobiografica con cui il regista messicano si è messo a nudo usando il cinema come specchio in cui riflettere sulla propria vita.
Bardo
Genere: Drammatico, autobiografico
Durata: 174 minuti
Uscita: 16 dicembre 2022 (Netflix)
Cast: Hugo Albores, Andrés Almeida
La trama: apocalisse privata
Descrivere la trama di Bardo significherebbe banalizzarlo. Perché Iñárritu non ci invita attorno al fuoco per raccontarci una storia, ma ci prende per mano lungo una scala a chiocciola che scende poco per volta nella coscienza di un uomo. Un’esperienza emotiva sconnessa, piena di sensazioni contrastanti. Si passa dall’euforia allo sconforto, dalla commozione alla risata, dalla nostalgia alla rabbia. Un magma di emozioni che ribolle di continuo dentro un film inquieto, instabile, che fonde commedia grottesca, dramma e poesia surreale con grande naturalezza. Al centro di Bardo, come detto, c’è Silverio. Un giornalista-documentarista messicano che ha avuto successo negli Stati Uniti. Costretto a tornare in patria per ritirare un premio, l’uomo inizia a cadere dentro sabbie mobili mentali (ed emotive) tutte sue. Una lenta caduta in cui dovrà fare i conti con un passato che torna inesorabile come le alte maree.
L’eterno limbo
Per provare a raccontare Bardo è meglio partire dal suo titolo. Titolo che nel credo buddista descrive il limbo, non-luogo sospeso tra la Morte e la Vita. E Iñárritu su questo filo ci cammina tutto il tempo, per quasi tre ore di cinema anarchico, personale, a tratti strabordante e compiaciuto, ma sempre capace di smuovere chi sta guardando una vita altrui srotolarsi davanti agli occhi. Un limbo che è molto più di un Purgatorio personale dell’onnipresente Silverio (che si aggira per il film come un’anima in pena). Perché Bardo è la storia di un uomo, ma anche quella di una famiglia e di popolo intero. Iñárritu si lega anima e corpo al suo Messico, terra di mezzo per eccellenza, limbo tra il Nord e il Sud, la speranza e la disperazione. Una terra amata e odiata, abbracciata con rimpianto e respinta con rabbia. Una terra che Bardo richiama con tante suggestioni visive sia intime che imponenti, impregnate di storie e di miti puramente messicani. Con una regia avvolgente, sapiente e fluida, Iñárritu costruisce almeno un paio di sequenze magistrali, destinate a scuotere come solo il grande cinema sa fare.
Ego in scena
È curioso come tanti registi in questi anni stiano usando il cinema per scendere a patti con i proprio passato. Ha aperto le danze Alfonso Cuarón con il toccante Roma, hanno continuato Paolo Sorrentino con il liberatorio È stata la mano di Dio e Kenneth Branagh con il suo tenero Belfast. Adesso è Iñárritu a sfruttare il grande schermo per esorcizzare i suoi fantasmi personali. Lo fa con un film stracolmo di Ego e consapevole di esserlo. Per questo Bardo ogni tanto eccede, risultando ridondante e ripetitivo il alcuni concetti ripetuti a oltranza. Eppure è tutto parte di un esame di coscienza che contempla un narcisismo da prendere o lasciare. Perché basta guardare la locandina del film per intravedere lo stesso Iñárritu al posto del protagonista, simile a lui nel look, nei capelli arruffati e sicuramente anche nei tormenti. Dalla sindrome dell’impostore alla consapevolezza di usare il grande schermo come spazio catartico in cui mettersi a nudo senza vergogna. Come fanno solo i grandi autori, certi di avere qualcosa da dire. E da condividere pur di uscire, finalmente, dal limbo.
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La recensione in breve
Strabordante, dolente e riflessivo. Con Bardo Iñárritu ci porta quasi negli Inferi assieme a lui. Alle prese con i suoi i fantasmi, le sue paure e i suoi rimorsi. Un'imponente opera autobiografica che riflette sulle scelte di una vita e allo stesso tempo sulle contraddizioni di una nazione intera.
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Voto ScreenWorld