L’ennesima versione di Pinocchio ci ha messo davanti all’ennesima, solita domanda: perché continuare a fare remake di opere già fatte e già viste?. Stavolta è il turno di Guillermo Del Toro che, intenzionato a riportare a suo modo il racconto di Carlo Collodi, si affida ai 35 milioni di budget riservatigli da Netflix, i quali gli hanno dato l’opportunità di potersi dedicare a un progetto che lo accompagna dal 2008. È stato quello l’anno in cui l’autore messicano ha cominciato a esprimere il primo interesse nei confronti di una propria variante del burattino di legno, idea brevemente interrotta a causa della mancanza di investimenti, compensati poi dalla piattaforma che gli ha permesso di realizzare il film come e quanto strambo volesse.
Una produzione che arriva in maniera del tutto differente rispetto al live action sempre di Pinocchio e sempre rilasciato nel 2022. Nel settembre dello stesso anno Robert Zemeckis ha proposto per Disney+ una pellicola sul personaggio nato dalla mente dello scrittore italiano, il quale si accosta moltissimo al Pinocchio che perlopiù tutti quanti conosciamo grazie al cartone animato, prendendone di pari passo le vicende. Quasi un salto nel perturbante quello che fa compiere Zemeckis allo spettatore, il quale ricordando esattamente il burattino del classico del 1940 se lo ritrova in una versione 3D al fianco di un impacciato Tom Hanks nel ruolo di Geppetto.
Tutte le versioni di Pinocchio
L’operazione fatta da Disney si è dimostrata solamente un altro progetto preconfezionato, nato dall’idea di dover (ri)portare al cinema grandi e piccini, i quali avevano già conosciuto i personaggi iconici e che volevano presentarli anche al pubblico più giovane. Produzioni che, però, continuano a fallire, a prescindere dai risultati del box office. Con Pinocchio la questione sembra un’altra ancora, ossia il desiderio intrinseco di alcune personalità dell’intrattenimento di prendere da una narrazione che li ha segnati profondamente e su cui hanno voluto lavorare per proiettarne la loro visione.
Tra gli ultimi prima di Del Toro c’è stato Matteo Garrone, che nella sua versione austera e distaccata di un Pinocchio (2019) quasi estetizzante ha rivisto la brutalità di cui è pregna la pagina stampata, unendo all’occhio artistico dell’autore italiano tutto il dramma educativo e sferzante dell’opera collodiana. Si passa poi alla stop motion del cineasta messicano, che nel proprio remake (anche difficile da chiamare così) inserisce la propria poetica legata da sempre alla teorizzazione dell’umanità dei mostri e della comprensione che nel mondo possa esistere il diverso, raffigurato questa volta da un burattino di legno il quale, anche quando raggiungerà il suo stato di “vero”, rimarrà comunque fatto di legno.
Stesso nome, stessa storia, diversa visione
L’investimento su cui ha scommesso Netflix, con Guillermo Del Toro così come con il resto degli autori presi nella sua schiera, è stata la completa libertà data ai maestranti e su cui hanno potuto sbizzarrirsi, purché rimanessero fedeli alla propria identità. Quella contenuta nell’Italia fascista della Seconda Guerra Mondiale descritta da Del Toro, il quale aggiunge alla trama rielaborata anche una parte canterina che completa la trasformazione del suo Pinocchio, trasformandolo in “altro”. È prendere la base di storie che diventano nell’immaginario degli archetipi consolidati e edificarci sopra inedite costruzioni, avvicinando il pubblico proprio con la novità.
Nell’epoca in cui il detto “scrivere è riscrivere” si è tramutato in un assunto svuotato del suo stesso senso, costretto a dover fronteggiare schiere di penne che pur di assicurarsi un’entrata fissa si dedicano a soli prodotti di cassetta per portare a casa il proprio stipendio, nel panorama mondiale ci sono stati autori che si sono battuti per far valere la propria visione. Anche e soprattutto su opere già esistenti. Solo nel corso degli ultimi anni un esempio lampante è arrivato proprio da un regista italiano, Luca Guadagnino, che nella continua sfida con l’apprezzamento o meno della critica e del pubblico (entrambi destinati a innamorarsi di lui), ha osato agire sul Suspiria di Dario Argento, dando il medesimo nome ad una sua opera, discostandosene completamente dal cuore originario.
Suspiria: quando tutto cambia
Le intenzioni del regista erano chiare dal principio. Film per lui segnante fin dalla giovane età, per Guadagnino il capolavoro del maestro del terrore è stata una fonte di piacere tale da riportarne una propria rivisitazione, che appartenesse al mondo concettuale di Suspiria, ma che avesse un puro marchio personale. L’ambientazione è differente, la scuola di danza è differente, anche le streghe sono differenti, mezze malefiche e mezze fate nella loro simbologia politica che riflette il tessuto storico tratteggiato dalla sceneggiatura di David Kajganich.
Molti, per questa distanza dalla fonte primaria, hanno accusato Luca Guadagnino di aver appellato con incoscienza la sua pellicola proprio con il nome omonimo di quella di Argento, considerando il gesto come un atto oltraggioso, soprattutto perché il suo film si dimostra distante e per nulla attinente con l’opera del 1977. Ma in verità è proprio questo lo spirito con cui bisognerebbe approcciarsi a quelli che comunemente chiamiamo remake, che dovrebbero essere considerati più come omaggi.
È Luca Guadagnino il quale ha preso il significato chiave che Suspiria ha rappresentato nella sua vita da spettatore e lo ha trasposto nella sola maniera in cui sarebbe stato capace. Nel solo modo in cui quella sarebbe potuta essere classificata come una sua pellicola. È una rivisitazione in termini più ampi che stimola maggiormente la creazione degli artisti e l’intrattenimento degli spettatori, che dietro alle movenze dei corpi di danza può sentire le due anime di Argento-Guadagnino e meravigliarsi/rincuorarsi di vederle così belle e riconoscibili.
West Side Story: una firma riconoscibile
Procedimento uguale seppur sotto un altro versante che riguarda il remake di West Side Story di Steven Spielberg. Anche per il cineasta americano, come per il collega Del Toro, l’opera riarrangiata per il 2021 ha radici collocate indietro nel tempo e che lo riportano ai ricordi della sua prima infanzia. Quella in cui i genitori avevano comprato il giradischi del musical con i brani di Leonard Bernstein, con un piccolo Spielberg che ne imparava i testi scritti da Stephen Sondheiman anche quando risultavano poco appropriati.
Sognando di lavorare ad un musical da una vita e facendolo con quello che più di altri ha segnato il suo sguardo da spettatore, il regista – su sceneggiatura del fido Tony Kushner – compone una pellicola che a tutti gli effetti porta su la firma di “un film di Steven Spielberg”. Il cineasta si approccia al suo omaggio rendendo riconoscibile la propria mano, non facendo altro che applicare la propria visione a una storia già vista e declinata in più varianti, anche in altre storie o prodotti, e apponendole uno stile di cui Spielberg è il solo detentore. Il West Side Story del 2021, nonostante identico per molti versi a quello del 1961, è la versione più devota nei confronti della cinematografia di Spielberg a cui il regista e gli appassionati potessero aspirare.
È vedere come un affezionato del cinema, quale è l’autore statunitense, abbia interiorizzato e riassemblato un’opera a lui cara e ci abbia riversato dentro tutto il suo amore. Non è la ripresa fotogramma per fotogramma dello Psycho di Gus Van Sant (anche quella oggetto di studio comunque ben da analizzare e coerente con il proposito insito dell’autore), ma la fedeltà che è prima di tutto verso se stessi, al proprio estro, e poi nei conforti dell’opera. Come lo Scarface di Brian De Palma diversissimo da quello originale di Howard Hawks. Tanti registi alle prese con la stessa storia, ognuno in grado di riportare la sua. Questo è perciò l’unico modo di poter apprezzare e valutare i remake. Comprendere la validità che racchiudono, vedendoci rispecchiata l’autenticità dell’autore.