“Sono sbalordito. Non ho mai visto niente di simile”. Parola di Neil Gaiman, appena uscito dalla proiezione di Principessa Mononoke. È il 1996 e il signore in questione ha appena finito di scrivere Sandman, uno dei fumetti più visionari e folli mai concepiti. Per sorprendere la mente di un genio devi essere proprio speciale, oppure chiamarti Hayao Miyazaki. Ovvero essere un genio speciale. In quei giorni Harvey Weinstein, capo della Miramax (che distribuiva i film dello Studio Ghibli nel mercato USA), affida a Gaiman l’adattamento dei dialoghi di Principessa Mononoke. Un lavoro difficilissimo e certosino, perché il film pesca a piene mani dal folklore medievale giapponese con termini e modi dire al limite dell’intraducibile. A questo aggiungiamo anche il celebre oltraggio mancato di Weinsten, che voleva persino tagliare alcune scene da lui considerate troppo distanti dalla sensibilità americana.
Dallo Studio Ghibli la prendono bene: il produttore Toshio Suzuki regala a Weinstein una katana con un bigliettino in allegato. L’elegante messaggio recita: “Niente tagli”. Una minaccia doverosa, perché Principessa Mononoke è un film da proteggere e conservare con fierezza. A 25 anni dalla sua uscita il film più feroce di Miyazaki torna finalmente al cinema dal 14 al 20 luglio. Un’opera sontuosa, che non ha perso un briciolo della sua forza dirompente. Anzi, sembra aver previsto tante disgrazie in cui oggi siamo immersi sino al collo. E non è un caso che Neil Gaiman, che di sogni premonitori se ne intende, lo avesse capito prima di tutti.
Mito: ieri, oggi, sempre
Parte tutto dalla più classica delle fiabe avvolte dalla leggenda. Negli anni Settanta Hayao Miyazaki immagina una storia semplicissima. Quella di una giovane principessa che chiede aiuto a una creatura della foresta in cambio della sua mano. Durante l’avventura, la donna si accorge del vero valore della bestia e se ne innamora in modo sincero. Una bozza tenuta a macerare decenni, e poi scartata quando nel 1991 la Disney tira fuori dal cilindro La Bella e la Bestia. Troppi punti di contatto. Meglio cambiare aria e farsi contaminare da Mudmen, manga Daijiro Morohoshi che influenzerà non poco la visione del sensei. La chiave era una: creare un racconto dal sapore mitologico, che potesse sembrare realmente accaduto in un tempo lontano. Qualcosa di realistico e allo stesso tempo magico. Qualcosa di verosimile. Così nasce Principessa Mononoke, che per certi versi incarna la summa della poetica di Miyazaki, da sempre sospeso tra fantastico e realismo storico. È quello che accade nei fitti boschi di questo film maestoso, ambientato nel periodo Muromachi. Ovvero il Medioevo giapponese incastrato tra il 1336 e il 1573.
Attraverso la figura nobile di Ashitaka (uno dei pochi uomini valorosi del suo cinema), Miyazaki si addentra tra le fila degli Emishi, popolo di cacciatori e agricoltori realmente esistito. Partendo da questa base storica riconoscibile, Principessa Mononoke inserisce subito un elemento straniante: un enorme cinghiale-demone attacca il villaggio del ragazzo, che dopo averlo ucciso rimane ferito da una maledizione stracolma di odio. Ecco che l’elemento magico irrompe subito, elevando il film verso il mito simbolico. Mettendo il film sui binari della mitologia, Miyazaki ha reso Principessa Mononoke un manifesto immortale. Pieno di archetipi classici (il viaggio dell’eroe, lo scontro Uomo-Natura, l’amore da tra spiriti affini), il grande capolavoro dello Studio Ghibli non ha fatto altro che catturare temi antichi come l’umanità, affrontarli di petto e soprattutto tramandarli come solo i grandi racconti sanno fare. Ecco perché Principessa Mononoke racconta ancora così bene l’oggi nonostante affondi le sue radici in un tempo antico. È il destino di tutte le grandi storie che fanno questo: si avvinghiano a quello che siamo, abbracciano l’uomo, i suoi paradossi, le sue miserie e le sue grandezze per diventare attuali. O meglio: eterne.
Natura bestiale
Da queste parti Totoro sarebbe brutalmente sbranato da qualche lupo. Niente dolcezza nelle foreste. Solo denti aguzzi, malformazioni e artigli pronti a far male. Niente tenerezza, niente dolci creature, nessuna spensieratezza tra morbidi fili d’erba. No, Principessa Mononoke è arrivata per cambiare tutto. E lo fa guardandoci dritti in faccia con il volto sporco di sangue, seria e minacciosa come Sun nell’iconica locandina. Neil Gaiman aveva proprio ragione: Principessa Mononoke è un film sconcertante perché ridefinisce il rapporto tra Uomo e Natura nella poetica dello Studio Ghibli. Ora non c’è più la purezza incantata de Il mio vicino Totoro e nemmeno il rispetto reverenziale di Nausicaa della Valle del Vento (che in qualche modo getta il seme). Principessa Mononoke è senza dubbio il film più viscerale e violento dello Studio Ghibli. Diretto, crudo e spietato come solo un certo tipo di cinema orientale sa essere.
Ci riesce grazie a una rivoluzione emblematica. Per una volta Miyazaki dipinge una Natura fiera, bestiale e feroce. A tratti persino paurosa e deforme. Lontano dall’innocenza e dalla meraviglia, Principessa Mononoke racconta la contaminazione in ogni sua forma: la corruzione degli animi, la tecnologia che inquina cuori e foreste, il mondo del ferro che imbastardisce quello del verde. Hayao Miyazaki non ha proprio voglia di carezze, e così disegna una Natura maestosa e mostruosa, che non se ne sta lì a subire in silenzio, ma pianifica la sua vendetta. Una Natura persino divina, che come tale non può essere certo compresa dalla limitata sensibilità umana, da sempre in conflitto con ciò che non può capire, vedere e di conseguenza controllare.
E allora ecco tanto sangue, bave, secrezioni, animali che diventano morbi virali a quatto zampe. Ecco due protagonisti che possono solo seguire il flusso della natura per sentirsi umani nel migliore dei modi. Probabile che rivedere Principessa Mononoke oggi metta quasi angoscia. Perché sembra quasi una profezia. Quella che si è avverata a suon di pandemie, disastri ambientali e sociali. Perché la Principessa Spettro (questa la traduzione di Mononoke) è andata molto oltre il “classico” monito ecologista, arrivando a toccare la vera essenza dell’animo umano. E anche quello non è proprio un bel posto.
Odio virale
“Nel mio cinema si sogna molto, ma la realtà ha sempre l’ultima parola”.
Hayao Miyazaki indica la via, e noi cerchiamo di seguirla. E allora camminando lungo la fitta foresta di Principessa Mononoke è facile arrivare all’amara morale della fiaba: l’odio è il vero virus da combattere. Ripensiamoci: nel film l’odio è il motore dell’azione, la scossa che muove la storia dall’inizio alla fine. Perché la maledizione che colpisce Ashitaka non è altro che un marchio. Il segno dell’odio degli uomini nei confronti di una Natura incomprensibile. Il nostro eroe, insomma, porta addosso i segni di una colpa collettiva. La colpa della sua specie. Da quel momento parte un viaggio in cui l’odio la fa da padrone. Perché tra Uomo e Natura non c’è dialogo ma solo perenne battaglia.
Da una parte Lady Eboshi, a capo della Città del Ferro, che vuole solo conquistare terreno. Dall’altra San e le sue fiere creature dei boschi, che reagiscono senza esitare. In mezzo alle due forze c’è proprio Ashitaka, una specie di ambasciatore che appartiene a un mondo (quello umano) mentre si sta innamorando dell’altro (quello di San).
Ecco perché con Principessa Mononoke Miyazaki ha profetizzato almeno altre due derive dei nostri tempi: la divisione in schieramenti netti e l’odio come miglior collante sociale. Perché niente unisce le persone più di un nemico comune da combattere o di un ideale da seguire ciecamente. Senza mai togliersi i paraocchi.
E quando qualcuno prova a fare da paciere, impugnando l’arma più potente di tutte (l’empatia), rischia di fare la fine di Ashitaka. Non a caso una meravigliosa mosca bianca nel cinema firmato Hayao Miyazaki. Proprio come Principessa Mononoke: un film uguale a nessuno e diverso da tutti.