Steven Soderbergh prosegue, e forse conclude, la sua saga sullo spogliarellista Mike Lane con il film Magic Mike – The Last Dance, il quale modifica i toni delle due pellicole precedenti, diventando a tutti gli effetti una rom-com. Una trasformazione imprevedibile seppur non inverosimile, vista la capacità camaleontica dell’autore cinematografico di spostarsi costantemente da un genere all’altro, cercando di sperimentare sempre con le narrazioni e la messa in scena nei suoi lavori.
Da questo suo eclettismo tira fuori proprio The Last Dance, che si pone undici anni dopo il film capostipite Magic Mike, il quale aveva saputo convincere per la decostruzione della virilità maschile, abbinata a un contesto introspettivo e indipendente. Un’opera – quella del 2012 – il cui contenuto impegnativo e la ricezione del pubblico non hanno saputo andare di pari passo, mettendoci in dovere anni dopo di rivalutare un’opera complessa e stratificata.
Magic Mike e il mestiere dello spogliarellista
Nella sua vena investigatrice, mai ferma su un solo tipo di racconto e intesa ogni volta a immergersi in profondità in un inedito stile o in una storia mai raccontata, con Magic Mike il regista – su sceneggiatura di Reid Carolin – sceglie di riprendere le esperienze di vita del suo protagonista Channing Tatum quando a diciannove anni ha lavorato in uno strip club a Tampa, in Florida. La struttura narrativa si unisce alla visione dell’uomo e alla sua mercificazione. Quella che solitamente riguarda i corpi e i fisici delle donne, con Magic Mike mostra come i pregiudizi e le conseguenze del mestiere dello spogliarsi generano risposte differenti nella società, seppur entrambe accompagnate da preconcetti e storture.
Il film di Steven Soderbergh, infatti, pur toccando anche il lato moralistico del lavoro dello spogliarellista, lo rapporta sempre a un contesto comunque rilassato seppur disilluso, in cui il ruolo dell’uomo che si toglie i vestiti per soldi non ha nulla di troppo svilente o denigrante rispetto a quello di una donna.
Corpi, nudità e generi a confronto
Diventa anzi un motivo di acquisizione di potere, inteso però in un versante diverso rispetto a quello femminile. Se per una donna infatti spogliarsi può significare riassumere il controllo del proprio corpo, in Magic Mike vediamo che per un uomo rappresenta un varco d’accesso a un’esistenza fatta di droga, donne e denaro, che non viene mai ostacolata dagli sguardi torvi o dai giudizi altrui. È un paradiso la cui unica ragione per volerlo abbandonare, dal punto di vista di Mike, è quello di inseguire il proprio sogno, ossia realizzare i suoi mobili e aprire una piccola azienda. Aspettativa che non viene mai ostacolata dall’effettivo impiego che lo tiene sul palco ogni sera, ma solamente a causa dei sistemi di prestito dell’economia americana che non vogliono assicurare a un “libero professionista” di avviare un’impresa.
È di fatto un lavoro semplicemente momentaneo quello a cui Mike si dedica e in cui trascina il novello Adam (Alex Pettyfer), il cui destino, a differenza del suo mentore, sarà probabilmente quello di rovinarsi proprio per le possibilità ludiche e lussuriose che la vita da stripper comincerà a offrigli.
Tra moralismo e curiosità: il ponte di Magic Mike
Come però ogni film su mestieri che riscuotono perplessità nel pensiero comune, soprattutto in quel 2012 in cui l’attenzione sul rispetto e sulla legittimazione dei lavori legati a una dimensione anche solo pseudo-sessuale era ancora labile e superficiale (vista invece la recente sensibilità anche attorno ai diritti dei e delle sex worker), anche Magic Mike si concentra sulle scelte e sulla ricezione della visibilità data dallo spogliarello. È il personaggio della sorella di Adam, interpretata dall’attrice Cody Horn, l’osservatrice che si interroga cercando di trovare un punto di contatto tra la propria quotidianità, fatta di “lavori normali” e riservatezza, e quella sovraesposta dalla nudità del fratello e dell’amico Mike.
Un personaggio che è il ponte di contatto tra il protagonista e il pubblico, una giovane mai invasiva o giudicante, solo curiosa e genuinamente interessata alla persona che ha davanti. È proprio per questo che in lei Mike troverà l’opportunità di un rifugio, una sicurezza. Pur non andando contro la disinvoltura con cui il film ci ha fatto rapportare fino a quel momento all’occupazione di Mike, ma concentrandosi comunque in maniera più approfondita sui sentimenti provati dai protagonisti.
Spogliarsi davvero significa vulnerabilità
Sentimenti inquadrati e tirati fuori dal personaggio principale e che vengono esplicitati anche in quel suo desiderio di confronto onesto e reale con l’altro sesso, come ad esempio quando cerca di intraprendere una relazione che vada oltre i semplici incontri erotici con il personaggio Joanna, interpretato da Olivia Munn.
È dunque lì che agisce l’operazione di scalfittura da parte di Soderbergh, che nel contesto generale mostra come possa essere liberatorio anche per un uomo denudarsi su un palco (forse, per l’appunto, anche più facile che per una donna). Ma è pur sempre complicato entrare in contatto con la vulnerabilità, specialmente se messa a disposizione delle altre persone.
Magic Mike e la rivalutazione di un film indie
Vari livelli, varie letture, che dal mercato finanziario americano alla figura individualista di un uomo e del suo bagaglio personale pongono Magic Mike sotto i riflettori di una disarticolazione dell’uomo e della figura maschile che l’autore mette in atto, chiudendosi sul finale con un’inaspettata dolcezza.
Uno shock che la pellicola ha suscitato, ma che non è minimamente coerente con quella presunta anima scandalistica che ha accompagnato la pubblicità e l’eco del film nell’immaginario collettivo. Il quale è bene rivalutare alla luce di una presa di coscienza che ora possiamo cogliere, e che conferma a tutti gli effetti come Magic Mike sia davvero un dignitosissimo film.