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    Home » Cinema » Perché è un problema quando le donne vincono ai festival di cinema?

    Perché è un problema quando le donne vincono ai festival di cinema?

    È davvero una "moda" premiare le registe donne nell'ambito dei principali festival cinematografici internazionali?
    Max BorgDi Max Borg28 Settembre 2022Aggiornato:30 Settembre 2022
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    All the Beauty and the Bloodshed
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    In questi giorni è in corso, a Milano e Roma, la rassegna che propone alcuni titoli passati a Cannes, Locarno e Venezia. Tra questi ci sono anche i vincitori degli ultimi due, Rule 34 di Julia Murat e All the Beauty and the Bloodshed, di cui abbiamo parlato nella nostra recensione dalla Mostra del Cinema di Venezia, di Laura Poitras. Due film che, alla luce delle rispettive vittorie, e soprattutto nel secondo caso, sono stati oggetto dell’onnipresente polemica che accompagna i festival da qualche anno: avrebbero ottenuto il massimo riconoscimento delle kermesse di competenza solo perché diretti da donne. Una questione su cui vogliamo tornare per cercare di chiarire perché è fondamentalmente ridicola.

    Il primo “sintomo”

    Un'immagine di The Nightingale
    una immagine di The Nightingale

    La prima discussione in merito – a parte qualche commento gossiparo sul fatto che Sofia Coppola, vincitrice del Leone d’Oro 2010, fosse l’ex del presidente di giuria Quentin Tarantino –  si può ricondurre all’edizione 2018 della Mostra di Venezia, quando The Nightingale di Jennifer Kent, unico film diretto da una donna a essere in gara quell’anno, si portò a casa due premi (ma non il Leone, andato a Roma di Alfonso Cuarón). Soprattutto in ambito italiano c’è stato quello che si può considerare un vero e proprio complottismo sull’argomento, con questo elemento a sostegno: i due premi sarebbero stati un contentino da parte della giuria per scusarsi con la regista per quanto accaduto alla proiezione stampa del film, durante la quale un giornalista italiano, successivamente allontanato dalla Mostra, se ne uscì con un insulto sessista all’inizio dei titoli di coda.

    Quello sarebbe l’unico motivo, si leggeva in giro, per premiare un film che i promotori di tale tesi ritenevano non particolarmente riuscito (per usare un eufemismo). Peccato che la qualità di un’opera d’arte sia soggettiva, e che in ogni caso The Nightingale fosse stato generalmente apprezzato dalla stampa internazionale. A questo aggiungiamo che, trattandosi di un revenge movie australiano che ruota intorno a uno stupro, è probabile che fosse nelle corde del presidente di giuria, tale Guillermo del Toro, e di almeno due colleghi (l’australiana Naomi Watts e il neozelandese aborigeno Taika Waititi).

    Una “moda”?

    una immagine di Titane

    Dopo il #MeToo si è cominciato a dire che ormai i grandi festival si sentono “obbligati” a premiare le donne, perché sarebbe la moda del momento. Principali elementi a sostegno sono il fatto che a Venezia, dal 2020 a oggi, abbiano vinto tre film consecutivi con firma femminile, e che tra luglio 2021 e febbraio 2022 tutti e tre gli eventi maggiori europei – nell’ordine, Cannes, Venezia e Berlino – abbiano assegnato il premio più importante a una donna.

    Una “dittatura del politicamente corretto”, secondo chi sostiene che i premi andrebbero assegnati in base al merito e nient’altro (e quando a vincere è un uomo e non si condivide la scelta, misteriosamente ci si concentra solo sulla qualità dell’opera). Espressione francamente ingiustificata, soprattutto quando si parla della Palma d’Oro andata a Titane: cosa ci sarebbe, esattamente, di politicamente corretto nella decisione di premiare un film di genere dove la protagonista – una serial killer pansessuale – si accoppia con le automobili? E nel caso del triplice Leone – così come quello dell’Orso d’Oro andato ad Alcarràs – è altamente probabile che abbia inciso più il tema che l’identità di chi ha firmato il film, soprattutto nel caso di un documentario come All the Beauty and the Bloodshed (dato che il cinema del reale, in festival non specializzati, tende a essere giudicato soprattutto per cosa dice anziché per il come).

    Memoria corta

    Un'immagine di Rule 34

    Particolarmente sbalorditiva è l’affermazione secondo cui tutti i festival maggiori avrebbero cominciato solo adesso a dare riconoscimenti importanti alle donne, dopo decenni di predominanza maschile. Una frase che dimostra una conoscenza lacunosa della storia delle principali manifestazioni cinematografiche europee. Perché se Cannes ha effettivamente assegnato solo due Palme a produzioni con firma femminile (e la prima volta, nel 1993 per Lezioni di piano, fu un ex aequo con Addio mia concubina di Chen Kaige), Venezia – seppure con lunghi intervalli a partire dal 1985, quando vinse Agnès Varda – vanta sette Leoni andati a donne, dal 1981 a oggi. Berlino il primo Orso a uno sguardo femminile l’ha assegnato nel 1975, e cinque di quei sette premi sono stati decretati a partire dal 2006, una media di uno ogni tre anni.

    E poi c’è Locarno, quello che ha meno senso in assoluto coinvolgere in polemiche simili: dal 1990, anno del primo Pardo d’Oro andato a una donna (Svetlana Poruskina), 10 edizioni su 32 si sono concluse con il trionfo di una regista, e a questo aggiungiamo Lucrecia Martel che ha vinto l’edizione speciale del 2020, quando a causa della pandemia il concorso tradizionale fu sostituito da una presentazione di progetti interrotti dal lockdown. Erano i migliori film delle rispettive selezioni? Dipende dal parere del singolo spettatore. E oltre a cominciare a parlare esclusivamente di meriti dell’opera e non di fantomatici trattamenti di favore nei confronti di chi l’ha diretta, sarebbe anche il caso di fare un bel bagno d’umiltà e ricordare uno dei grandi precetti della fruizione del cinema: il nostro giudizio è, appunto, solo nostro, e non una verità universale e inconfutabile.


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