Dopo il successo di Parasite – primo film non in lingua inglese a vincere l’Oscar per il miglior film – Bong Joon-ho torna alla regia con Mickey 17. Questo nuovo capitolo cinematografico non rappresenta di certo il primo confronto con un cinema più “americano”: il regista aveva già diretto Snowpiercer (2013) e Okja (2017). Tuttavia, rispetto ai lavori prodotti in patria (Parasite, The Host, Memories of Murder), nelle opere in lingua inglese i grandi temi che caratterizzano lo stile del regista risultano in qualche modo depauperati.

Parliamo di lotta di classe, ambientalismo, alienazione e ultra-capitalismo – tutti temi che sembrano trovare piena forma nella sua ultima opera. Mickey 17 si inserisce quindi in questo percorso come la maturazione definitiva del regista, che riesce ora a bilanciare la sua satira politica con una messa in scena hollywoodiana. Sebbene Mickey 17 sia il film più spettacolare di Bong Joon-ho, è anche quello con cui il regista si è esposto maggiormente al pubblico mondiale.

Lavorare è alienare

Mickey 17 come cavia da lavoro
Mickey usato come una cavia – © Warner Bors. Pictures

Mickey Barnes è un giovane terrestre che, a causa di un investimento sbagliato, si ritrova a dover dei soldi a un pericoloso strozzino. Il ragazzo non ha molta scelta se non accettare di diventare un “Sacrificabile”; ossia un lavoratore che, affrontando missioni mortali, può essere ristampato in infinite versioni di se stesso. La posizione del lavoratore nel mondo di Bong Joon-ho è dunque più che mai attuale: il capitalismo è ormai una questione di vita o di morte.

Posto sull’ultimo gradino della scala sociale, il lavoratore perde perfino la propria individualità: non vi è più alcuna differenza tra il lavoratore Mickey e gli oggetti di cui l’umanità si serve per “progredire”. Tra satira e filosofia marxiana, il regista racconta il destino finale del lavoratore della nostra epoca. Mickey non solo viene allontanato da ciò che produce – la terra promessa di Niflheim – perdendo le libertà creative e individuali di un essere umano, ma viene anche privato della sua ultima forma di libertà in quanto essere vivente: la sua stessa morte.

Il Sé individuale e il Sé sociale.

I due Mickey sul finale del film
Mickey 18 e Mickey 17 – © Warner Bors. Pictures

Secondo Kierkegaard, l’individuo è scisso in due Sé: quello che presentiamo alla società e quello che coviamo segretamente dentro di noi. Questo concetto può fornire un’interessante chiave di lettura per il “problema dei Multipli”: a causa di un errore di valutazione, infatti, Mickey 17 si ritroverà a dividere la propria esistenza con Mickey 18. Mickey 17 è il sé docile e assertivo, voluto e plasmato dalla società. Lo stampo del lavoratore del futuro, capace di rinunciare a qualsiasi diritto in nome di un profitto di cui non godrà mai.

Il clone è pronto a subire qualsiasi tipo di abuso, venendo per di più disumanizzato dallo stesso sistema che contribuisce a costruire. Mickey 18 è il sé individuale, combattivo e intellettivamente cosciente del mondo che gli ha dato vita. L’ombra di un’umanità che non è più disposta a sacrificare la propria libertà per il gusto di pochi e ottusi egomaniaci. Una scintilla di ribellione che servirà da chiave per il climax finale.

Volontà di sopraffazione e nuove sensibilità.

Mickey durante il finale
Mickey Barnes durante il convegno – © Warner Bors. Pictures

Il personaggio di Kenneth Marshall, uomo di facciata dell’organizzazione teocratica, è un totalitarista fanatico che non vede l’ora di conquistare nuove terre e ricchezze. Sebbene le scene che lo vedono protagonista siano grottesche e ridicole, non ci appaiono poi così lontane dalla realtà a cui assistiamo tutti i giorni. La colonizzazione di Niflheim, nello stesso modo delle più cruente pagine della nostra storia, avviene senza tenere in considerazione i danni causati ai nativi e all’ambiente.

La nuova e ottusa umanità è pronta a depredare e conquistare in nome di della propria forza. Sarà proprio Mickey 17, il più “debole” tra i personaggi in gioco, a trovare una soluzione. La sua empatia, tanto ostracizzata, diventerà infine la chiave per una pace con i nativi. Rispetto ad alcune opere precedenti, vi è qui un finale ricco di speranza: alla visione cieca e violenta della conquista il regista oppone una nuova sensibilità. Bong Joon-ho riesce allora nell’impresa di creare un film monito, comico e spettacolare, in grado di produrre una riflessione più profonda su un destino che è ancora da scrivere.

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Cinefilo accanito, musicomane, videogiocatore e appassionato di letteratura e fumetti. Sono uno studente di cinema e audiovisivo, con una particolare attenzione alle produzioni del continente asiatico. Puoi trovarmi come cinerama46 sui social!