Un conflitto, la morale, la critica sociale e storica. Tutti elementi che se ben mescolati con la giusta dose di scambi taglienti ci restituiscono la filmografia di Martin McDonagh. E non stupisce affatto, dal momento che il conflitto sembra essere un aspetto fondamentale della sua identità e formazione.
Nato e cresciuto in Inghilterra (compie 55 anni il 26 marzo 2025) da una famiglia con forti radici irlandesi – due terre che, per usare un eufemismo, non hanno mai avuto una grande intesa – il regista lega molte delle sue opere al sentire dell’isola: dalle due trilogie di opere teatrali, i cui rimandi all’isola di San Patrizio sono evidenti sin dal titolo, sino all’ultima opera, Gli Spiriti dell’isola (The Banshees Of Inisherin, 2022).
Dal teatro al cinema

Gli anni ’90 sono il decennio in cui Martin inizia a vestire i panni del vero prodigio della scrittura teatrale, con un ritmo di produzione straordinario: nel 1994 realizza ben dieci opere. Questa prolificità, combinata alla qualità delle messe in scena, lo rende, a soli ventisette anni, il più giovane drammaturgo dai tempi di Shakespeare ad avere ben quattro opere in contemporanea nei teatri londinesi.
Nei primi anni 2000 decide di compiere il salto nel cinema e, sostituendo il palco con il grande schermo, il risultato non sembra risentirne. Alla prima esperienza dietro la macchina da presa realizza un cortometraggio, Six Shooter (2004), con il quale si aggiudica l’Oscar; nel 2008 scrive dirige il primo lungometraggio, In Bruges. Da qui la sua filmografia si costruisce attorno a una perfetta fusione tra dialoghi sferzanti, scene comiche ed eventi drammatici.
Dalla macchina da scrivere alla regia

L’intera carriera di McDonagh, dunque, lo ha visto padroneggiare sia la macchina da presa che la macchina da scrivere. Martin scrive tutte le proprie opere, le costruisce, ne rileva l’anima e la mantiene intatte con una certa gelosia. Nessun produttore o co-sceneggiatore può apporre alcuna nota o correzione su di esse. Anche per questo motivo, la loro cura, dalla prima parola scritta all’ultimo ciak, è sempre nelle mani dello stesso McDonagh.
Soffermandoci sui suoi film, si nota una sottile linea che lega il primo lungometraggio, In Bruges (2008), e l’ultimo, Gli Spiriti dell’isola (The Banshees Of Inisherin, 2022). Entrambi presentano la medesima coppia protagonista, Colin Farrell e Brendan Gleeson, e attraverso di essa esplorano l’amicizia e i legami più solidi. Una tematica forte, potente e universale per il cinema, che l’occhio del regista anglo-irlandese guarda con due differenti prospettive, ambientazioni e circostanze.
Il destino di due coppie d’amici

In Bruges (2008) e Gli Spiriti dell’isola (2022) sono le due pellicole con al centro la coppia irlandese Farrell-Gleeson, però il legame tra i loro personaggi percorre traiettorie diametralmente opposte. Ma andiamo con ordine. Nel primo film i due formano una coppia di “colleghi” malavitosi, Ken e Ray, che in seguito ad un tragico incidente vengono spediti nella capitale belga per aspettare nuove istruzioni. Si ritrovano, quindi, nell’ansiosa attesa di una chiamata del loro capo Harry (Ralph Fiennes) e, nonostante l’atmosfera di pericolo che incombe sui due, il loro rapporto d’amicizia si rafforza. Le profonde conversazioni sulle credenze religiose, sul giudizio universale e sulla colpa creano il giusto collante d’amicizia tra i due.
Nel secondo film la dinamica si rovescia: siamo nella tranquilla Inisherin, isola immaginaria di verdi prati, alte scogliere e pinte scure nei classici pub irlandesi. Uno scenario fiabesco nonostante abbia un conflitto sullo sfondo (la guerra civile irlandese nel 1922-1923). Un pericolo, quindi, lontano, mostrato come del tutto estraneo alla vita isolana, che invece è teatro dell’improvvisa fine dell’amicizia fraterna tra Colm (Gleeson) e Padràic (Farrell). Due situazioni all’opposto, dunque, un’amicizia che si forma e si irrobustisce di fronte ad una minaccia incombente e un’altra che si disintegra nella lenta, stagnante e monotona vita dell’isola.
Più maturo ma comunque pungente

In Bruges (2008), che solo in un secondo momento guadagnò lo status di cult movie, presenta la giusta combinazione tra commedia e tragedia, con una scrittura capace di caricare la tensione per poi smorzarla con i dialoghi umoristici, vero marchio di fabbrica di McDonagh. Con The Banshees Of Inisherin la penna e la regia di Martin possono vantare una maggiore maturità artistica. In questo caso non si limita ad una mera riflessione sul tema dell’amicizia, ma la costruisce attorno ad una forte impalcatura critica.
Quest’ultima opera, infatti, mette sott’esame la storia irlandese e lo fa con un soggetto che a prima vista potrebbe apparire incapace di un vero sviluppo drammaturgico. Difatti, tutto ruota attorno alla fine dell’amicizia tra i due protagonisti. Il risultato, invece, regala un continuo susseguirsi di colpi di scena, tra il comico e l’assurdo, una commedia del grottesco, carica di malinconia e della potente sensazione del tempo che scorre.
Inisherin, un microcosmo sulla scia di Ken Loach…

Inisherin si rivela essere la miniatura dell’Irlanda dei primi anni ’20. C’è un forte parallelismo tra le sorti di un’amicizia fraterna e dell’unità nazionale, c’è un ultimatum ed un successivo susseguirsi di eventi distruttivi. Colm, abile violinista, travolto da una crisi esistenziale, ripensa alla propria vita e decide di volerla strappare dall’ombra dell’anonimato. Vuole scolpire il suo passaggio sulla terra e lo vuole fare dedicando il suo tempo alla musica. Per fare ciò è necessario, pensa lui, tagliare fuori il noioso amico Padràic. Ricorda molto la fazione irlandese che, sconfitto l’Impero Britannico, non vuole farsi sfuggire l’occasione di una piena indipendenza. Padraic, dal canto suo, nella proprio ingenua bontà, sembra accontentarsi della sua vita da mandriano, decorandola come può con la sua gentilezza.
Più simile, dunque, all’altra metà d’Irlanda che, ottenuta una seppur parziale indipendenza, cerca quella pace che manca ormai da troppo tempo sull’isola di smeraldo. McDonagh, quindi, lascia sì la scena bellica ai margini, ma la critica aspramente trasferendo analoghe dinamiche tra i due protagonisti. Così facendo sembra quasi ripercorrere le orme di un altro regista inglese, Ken Loach, il quale, però si addentrò nell’occhio del ciclone bellico di questa guerra civile con i due fratelli O’Donovan, ne Il vento che accarezza l’erba (2006). Damien e Teddy, al pari di Colm e Padràic, agirono come vera personificazione delle due ideologie contrapposte, disegnando una perfetta metafora dello scontro fratricida.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017)

Per rifinire con un’ultima pennellata il quadro della poetica del regista, facciamo un passo indietro. Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017) è il terzo lungometraggio di McDonagh, un grande successo e vera svolta per il suo sviluppo artistico. Come già accaduto con In Bruges e Gli spiriti dell’isola, tutto nasce da un conflitto morale. Il personaggio di Mildred (con cui Francis McDormand vinse il suo secondo Oscar), è alla disperata ricerca di giustizia per l’assassinio della figlia. Combatte l’immobilismo della polizia locale con una vera campagna pubblicitaria, comprando tre manifesti alle porte di Ebbing (anch’esso, come Inisherin, luogo immaginario). Dopo il conflitto morale tra colpa e redenzione che troviamo nel primo film, lo sguardo è sempre rivolto alla giustizia. La prospettiva, però, gioca sul dualismo tra giustizia legale e privata.
McDonagh si sposta dalle sue tipiche ambientazioni britannico-irlandesi ma il risultato è il medesimo: lo spettatore viene spinto a indagare dentro di sé, portato a riflettere su un dilemma morale. Una giustizia immobile e la vendetta privata di una madre: cosa è davvero giusto? La penna dell’autore partorisce personaggi colmi di contraddizioni interiori, grazie ai quali lo spettatore non può far altro che interrogarsi alla ricerca di una risposta che forse non esiste. Anche da questa sceneggiatura emergono attimi di comicità, molto affievoliti rispetto a In Bruges, ma comunque utili a mitigare una tensione decisamente in ascesa rispetto le opere precedenti.
Una vita e uno stile a metà strada

Il tono con cui vengono scandite le opere di McDonagh, in conclusione, è apparentemente bloccato ad un bivio. Uno stile che guarda sia alla commedia che al dramma, ma che riesce a combinarle con le giuste dosi. Un cinema che trova il coraggio di offrirci lo slancio di un sorriso nel mare di tragedia e contraddizioni in cui sguazzano i suoi personaggi. Non sceglie una delle due strade di fronte a sé, ma crea una terza via. Un proprio stile, sulla stessa falsariga della sua vita, a metà strada tra le radici irlandesi e la vita inglese che si è costruito.
Allo stesso modo, la sua scrittura non sembra mai scegliere una destinazione. Sia per lo stile dell’opera, sia per l’esito dei vari dilemmi che ci pone. Infatti, mette sempre noi spettatori di fronte ad un crocevia morale. La gravità di una colpa o la possibilità di redenzione? Una giustizia legale o privata? Una vita dedicata alla musica o ad un’amicizia fraterna? Ci spinge a riflettere su una scelta, quando in realtà possiamo non scegliere, non esprimerci, possiamo restare in silenzio, riflettendo e restando a metà strada.