Intorno al Reno italiano scorrono tante storie. Il compito di viaggiare e testimoniare i racconti ambientati tra presente e passato lungo le sue sponde spetta a un regista che, incaricato da uno strambo circolo locale di realizzare un documentario, si mette in viaggio dalla sorgente alla foce del fiume, raccogliendo appunti e impressioni. A poco a poco, il piccolo viaggio intorno al fiume della sua infanzia diverrà un cammino onirico ben più vasto nei racconti degli uomini, dove perdersi potrebbe significare ritrovarsi. Dopo aver incantato l’Europa tra l’IFFR di Rotterdam e il Bif&st di Bari, L’Oro del Reno arriva al cinema dal 3 luglio con Europictures.

Il primo lungometraggio diretto da Lorenzo Pullega è un viaggio onirico in cui realtà, ricordi e immaginario si intrecciano lungo le sponde di un piccolo fiume emiliano, nato quasi per caso dall’immagine che è poi diventata l’incipit del film: un gruppo di melomani giapponesi vestiti da vichinghi, fan sfegatati di Richard Wagner, che nel tentativo di omaggiare il compositore tedesco percorrono su una canoa vestita da nave vichinga il Reno. Nessuno di loro si rende conto, però, che quello è il Reno sbagliato.

L’oro del Reno
Genere: Fantastico
Durata: 90 minuti
Uscita: 3 Luglio 2025 (Cinema)
Regia: Lorenzo Pullega
Cast: Neri Marcorè, Rebecca Antonaci

Un film di doppiezze e meraviglia

La scena iniziale de L'Oro del Reno - © Europictures
La scena iniziale de L’Oro del Reno – © Europictures

L’apertura di racconto orchestrata da Pullega è mirabolante, tragicomica, al limite dell’assurdo. Perché non è tanto l’immagine in sé a entrare nel cuore, quanto il fatto che il tema musicale sia proprio il Das Rheingold di Wagner – “l’originale” L’Oro del Reno, Il primo dei quattro drammi musicali che compongono L’anello del Nibelungo (gli altri La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei) che Wagner rappresentò per la prima volta a Monaco di Baviera il 22 settembre 1869. E se a questo aggiungiamo che alla co-produzione del film troviamo la Mompracem di Antonio e Marco Manetti e proprio la Rheingold Film, ecco che appare evidente, sin da subito, qual è la cifra stilistica del gioco filmico a cui Pullega ci mette di fronte.

Una duplicità figlia di un doppio caso di omonimia che finisce con il pervadere non solo la componente tematica e i colori e i sapori de L’Oro del Reno, ma anche la ratio stessa della bella opera prima di Pullega. Perché oltre l’omaggio wagneriano contenuto nella scelta di parole del titolo e il sottile legame di due corsi d’acqua distanti 750 chilometri l’un l’altro (ma vicini nonostante tutto) c’è la frastagliata anima narrativa di un’opera prima che nasce come un’indagine creativa intorno alla realizzazione di un mockumentary sulla comunità che vive intorno al Reno, ma che finisce con il diventare un intimo e catartico autoritratto che svanisce nelle cose e si immerge nel Mondo.

La storia di tante storie

Un momento del film - © Europictures
Un momento del film – © Europictures

Ironia vuole che anche lo stile della narrazione stessa de L’Oro del Reno ha un ché di fluviale nel suo sviluppo. Un andamento fluido che vede Pullega inanellare storie tra il bizzarro, l’onirico, il romantico e il surreale popolate di personaggi grotteschi, dolci e romantici. Ci troverete sindaci strambi e direttori d’orchestra megalomani, attori isterici e coppie che litigano, contesse decadute che parlano di tempi lontani e dorati e camerieri che girano, di notte, con lanterne dalla luce fioca. Ma anche zitelle inacidite, avvocati sopra le righe, coppie scoppiate e spose indomabili disposte a tutto per ritrovare il proprio amore (Rebecca Antonaci, che avremmo tanto voluto vedere di più).

Tutti appaiono e scompaiono come figure folkloristiche e indecifrabili nel viaggio onirico e impropriamente episodico de L’Oro del Reno tra passato e presente, memoria e fantasia, ponendosi dinanzi agli occhi del regista/autore che del film è anche volontaria coscienza del racconto. Non si può dire altrimenti di un’opera che procede per poetiche soggettive in cui l’occhio del protagonista va ad assimilarsi con quello della cinepresa.

Tra Sorrentino, Seidl e un pizzico di Weerasethakul, L’Oro del Reno è un’ode onirica alla vita semplice e rurale ma anche la storia di tante storie. Storie di portata universale che si muovono al di là dell’orizzonte conosciuto e che, tra emozioni e parabole, entrano dentro lo spettatore sino a toccargli le corde dell’anima come solo i miti dell’antichità. Storie da ricordare e da tramandare, con cui vivere ancora un altro po’. Un esordio coi fiocchi quello di Pullega, dotato di ingegno e personalità seppur privo di coesione e armonia, che getta un faro di curiosità e fortuna sul prosieguo della sua carriera.

Conclusioni

7.0 Strabiliante

Di esordi così ne vorremmo vedere sempre di più. Con L'Oro del Reno, Lorenzo Pullega firma un'opera prima audace, ambiziosa e dalla personalità definita. Un viaggio onirico tra fantasia e realtà che vi travolgerà senza pensarci troppo.

Pro
  1. La struttura atipica
  2. La soggettiva del regista-protagonista
  3. La duplicità narrativa
  4. L'interpretazione di Rebecca Antonaci
Contro
  1. Potrebbe scoraggiare il pubblico meno raffinato
  • Voto ScreenWorld 7
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Classe 1989, si è innamorato del cinema con Jurassic Park e da allora non ne può più fare a meno. Scrive per necessità e continua a credere che la vita sia come un film di Billy Wilder.