1995, il regista francese Mathieu Kassovitz va senza timore nelle banlieues parigine e realizza il suo secondo lungometraggio da regista. L’odio narra la storia di tre ragazzi, Hubert, Saïd e Vinz, della banlieue di Parigi che vogliono vendicare l’attacco subito da Abdel, loro amico, da parte della polizia.
Sono passati ventinove anni dal capolavoro di Kassovitz e ancora oggi risulta essere centrale e importante. In quest’articolo proviamo a capire il perché da un punto di vista sociale, analizzando quindi l’importanza del conflitto tra polizia e civili, tema universale e centrale del film, e da un punto di vista cinematografico, osservando quindi come il regista francese abbia costruito la narrazione della vita nei sobborghi, degna del premio miglior regia al festival di Cannes.
Le banlieues di Parigi
Capire la formazione delle banlieues di Parigi è centrale per capire l’importanza del gesto di Kassovitz. Luoghi di operai e manifestazioni dai primi del Novecento, hanno sempre rappresentato un “problema” socioculturale non indifferente. Numerosi sono i fattori che hanno contribuito alla formazione e alle vicende susseguitesi nelle banlieues parigine, da discorsi sociopolitici a discorsi storici, come la decolonizzazione delle colonie francesi nel secondo dopoguerra che portò milioni di migranti nella capitale francese, e ad un comprensibile disagio nella gestione di questo flusso. Per capirne la rappresentazione, ed anche il conseguente orientamento politico della polizia, ci si può soffermare sull’etimologia della parola stessa. Il significato della parola è infatti passato da significare nel medioevo “territorio, luogo da amministrare” a “bandire, luogo di banditi” nella storia recente.
Diventa quindi più facile capire come anche esternamente si riescano a formare velocemente pregiudizi riguardo le banlieues e i loro abitanti. Zone multietniche, ricche culturalmente ma limitate a essere considerate luoghi di manodopera a basso costo, il che negli anni ha portato a disoccupazione e illegalità sempre più frequenti con nuove generazioni di giovani adulti, come li chiameremmo adesso, con un’assenza di prospettiva per il futuro e con il solo potere della protesta nelle loro mani. Condizioni ancora presenti. Nel 1994 vennero istituite le BAC (brigades anti crimanilité).
Corpo di polizia incaricato di controllare le banlieues, i cui membri vengono precisamente formati e godono della nomina di garanti della pace, dandogli così diritto a speciali tutele. Un ambiente legato all’estrema destra che porta ad un modello di vigilanza completamente differente rispetto al resto della polizia di Parigi e della Francia. Colpevoli fino a prova contraria, quelli delle banlieues. Un modello quindi estremamente pervasivo che non si fa problemi a fare della profilazione razziale e abuso di potere strumenti all’ordine del giorno. I poliziotti addestrati alla profilazione e i giovani disillusi delle banlieues. Due modelli culturali radicalmente diversi inevitabilmente destinati a scontrarsi nelle strade dei sobborghi di Parigi. Conflitto che rimane perno centrale del film di Kassovitz.
L’odio. La polizia e i civili dei sobborghi.
Kassovitz realizza un film dichiaratamente politico. Basti pensare quanto sia incisivo il solo titolo e l‘inizio del film. La Haine, l’odio, in francese, un titolo che è già un messaggio politico che accompagna le prime immagini su schermo, scene di repertorio di scontri urbani tra civili e polizia. Non solo, il regista francese prende dichiaratamente le parti dei civili scegliendo di lasciare gridare uno dei messaggi centrali del film, un messaggio universale che non può che risuonare tra tutti i cittadini del mondo vista la sempre crescente tensione tra polizia e civili, “Assassins! Nous n’avons pas d’armes! Seulement des cailloux” grida un protestante, ovvero: assassini! Noi non abbiamo armi! Solamente pietre!”.
Non tanto perché tutti debbano voler protestare o esser contro la polizia, ma per la, mai incessante e sempre opprimente, dinamica di potere completamente squilibrata. I civili si mettono sempre in situazioni da poter essere aggrediti, che è ben diverso da voler essere aggrediti. La volontà di un protestante è appunto quella di protestare, di provocare e portare a una reazione altrimenti non si protesterebbe. In modo tale si espone la brutalità e l’ingiustizia e si provoca un cambiamento, o almeno si spera. Subito dopo, il film prosegue con le celebri parole recitate da Hubert Koundé, che interpreta Houbert, a schermo nero. “È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani… A ogni piano, mentre cade, l’uomo non smette di ripetere: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Questo per dire che l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.
L’odio chiama odio. Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani ” Parole che sembrano in fondo gridare una profonda sofferenza da parte del popolo parigino, come a chiedere fino a quando può durare questa condizione? A fine film infatti la frase viene rivista e recitata così “è la storia di una società che precipita e mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.”, un’altra ammissione da parte di Kassovitz. Punta il dito e non si tira indietro: la società deve cambiare!
L’importanza del mezzo cinematografico
Quello di Kassovitz però non è un film importante solo a livello sociale. Il giovane regista francese, pur essendo ancora alle prime armi, dimostra una grande consapevole dei propri mezzi e del potere che può assumere il cinema. Vincitore della miglior regia al 48° festival di Cannes non a caso, Kassovitz utilizza il mezzo cinematografico a favore della storia. Lo fa tenendo i tre protagonisti centrali all’interno del racconto pur separandoli in varie situazioni. Riusciamo a capire le famiglie e le condizioni dei tre, dunque anche cosa li accomuna, senza perdere di vista l’unione dei tre. Si scopre infatti all’interno della narrazione che tutti e tre hanno almeno un parente in carcere. Valore che li stringe ancor più del condividere la vita nelle banlieues. La polizia è chiaramente il nemico della storia, questo è chiaro da subito.
È dichiarato ed è esplicitato. Come ad esempio il momento in cui Saïd e Hubert sono abusati da parte della polizia in un interrogatorio farlocco. Ci sono altri dettagli che rendono notevole la regia di Kassovitz, come ad esempio quando i tre stanno passeggiando e ad un incrocio incontrano la polizia. Importante qui è l’uso del suono e la posizione dei personaggi davanti alla macchina da presa. La polizia è in primo piano, Vinz e gli altri distanti in secondo piano. Mentre vediamo la polizia comparire, continuiamo a sentire chiaramente i tre parlare come se fossero presenti solo loro in scena, man mano che si avvicinano alla polizia, il volume delle loro voci, comprensibilmente, si assottiglia. In questo modo, quasi passando inosservato, Kassovitz riesce a mantenere l’attenzione sui tre ragazzi e ad enfatizzare la minaccia che rappresenta la polizia per gli abitanti dei sobborghi.
Attraverso questa tecnica, utilizzata più volte, riesce sempre a spostare l’attenzione su più elementi in scena, invece che soffermarsi a cosa vediamo di primo impatto davanti a noi. Un po’ come la vita nelle banlieues, dove dentro c’è sempre qualcosa che non si vede prima. Un altro elemento degno di menzione nella costruzione della narrazione di Kassovitz è come sia stata divisa quest’ultima. Il racconto si sviluppa nell’arco di una giornata e viene segmentato dalle lancette dell’orologio. 10:38, 12:43, 14:12 e così via fino alle fatidiche 06:01 della mattina seguente. Piccoli capitoli, ognuno con le sue azioni e momenti specifici, ma in fondo non così diversi tra loro perché rappresentano la monotonia e la mancanza di scopo e prospettiva da parte dei tre ragazzi. Se da un certo punto di vista, si può identificare come la loro missione fare giustizia per Abdel, dall’altra parte è visibile che vaghino per Parigi e i suoi sobborghi disillusi e colmi di una rabbia che non sanno dove direzionare, destinata, prima o poi, ad implodere.
Uno specchio dell’inesorabile passare del tempo e assenza di speranza nel futuro per i ragazzi dei sobborghi. Kassovitz sfrutta così al meglio gli strumenti propri del cinema per rendere chiara la condizione di vita, o meglio la sua assenza, la noia e gli scontri quotidiani, nella banlieues parigine. Come il grande cinema sa fare, fotografa il presente e riesce a prefigurare il futuro, rendendosi, purtroppo, ancora importante in varie situazioni di cronaca negli anni a venire, come le rivolte del 27 ottobre 2005 a Clichy-sous-Bois.
L’importante non è la caduta ma l’atterraggio
Il cinema nasce come mezzo di intrattenimento ma in breve tempo ci si rese conto che poter raccontare opere narrative, storie quindi, era di gran lunga un miglior e più degno uso del mezzo cinematografico. La capirono i dittatori e i capi di governo, l’importanza e la potenza di poter raccontare a masse qualcosa tramite il cinema. E così come divenne strumento di propaganda divenne anche strumento di protesta e rivendicazione sociale. L’odio di Kassovitz fa proprio questo, usa il mezzo a favore della storia per rivendicare storture e condizioni sociali che vengono troppo spesso trascurate e oscurate. Così facendo Kassovitz restituisce parola e potere ai civili dei sobborghi parigini, rendendo le immagini di quella condizione di povertà e protesta immortali.
L’odio rimane un film incisivo. Un film politico in grado di prender posizione senza giudicare i suoi personaggi, che, si, commenta ma soprattutto mostra e informa senza moralismo ne eccessiva indignazione. Un film di trent’anni fa e di urgente attualità, che si dimostra ancora rilevante come sguardo verso il mondo e il conflitto tra la polizia e i civili. Non sono infondo poi così diverse le tante situazioni internazionali e nazionali in cui si sono visti abusi di potere da parte di ufficiali di polizia. Un tipo di film insomma di cui c’è sempre bisogno. Non è forse un caso l’uscita recente di Civil War (2024). Un film apolitico ma ugualmente importante perché sembra riportare la stessa frase di Hubert di trent’anni fa, “L’importante non è la caduta ma l’atterraggio.” Chiedendo ancora una volta, quanto avanti potremo andare? Dove arriveremo? Città bruciate, governi e regimi assaliti? È una realtà possibile o pura distopia?
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