Sono passati 25 anni, eppure riguardando In the Mood for Love i nostri ricordi si scoprono ancora bagnati di lacrime. Lo aveva preannunciato il signor Chow, confessando la nostalgia inespressa del suo sentimento e consegnandola all’oblio di 2046, film venuto cronologicamente dopo In the Mood for Love al fine di ospitare ogni sua variazione, espansione e ciclica chiusura di una storia lunga anni.

Un racconto avviato da Wong Kar-wai con la sua seconda opera (Days of Being Wild) e portato a compimento attraverso un irregolare lavoro di stratificazione, di continua riformulazione. In fondo il suo cinema è sempre stato questo: un discontinuo ritorno al passato, la fragile migrazione di personaggi uguali e sempre diversi, simmetrici ma mai coincidenti, duplicati in ricorrenze variabili di un tempo soggettivo, mnemonico e profondamente malinconico.

Prima di ogni altro amore impossibile c’è stato In the Mood for Love. Puro e avvolgente linguaggio di un sentimento inadatto a viversi se non nella prefigurazione di una virtualità irrealizzabile. Dell’inacessibilità al contatto, dell’intimità e della comunicazione Wong Kar-wai ne ha fatto principio generativo di immagini, lasciandoci in eredità un cinema di frammenti, corpi e identità sezionate nel tempo, nello spazio e nelle emozioni. Solitudini impenetrabili, capaci di cristallizzare un’opera come In the Mood for Love dentro un tempo indefinito, testimone ultimo delle rovine di un amore che non sa come invecchiare.

Ritorno a una Hong Kong mnemonica e mentale

In the Mood for Love
Una scena di In the Mood for Love – @ Lucky Red

È l’Hong Kong degli anni Sessanta, quella dell’infanzia di un piccolo Wong Kar-wai appena arrivato nel territorio che ne ospiterà la crescita. Ma all’interno di In the Mood for Love Hong Kong è un ambiente assente, astratto – sublimato in coordinate spazio-temporali sempre antecedenti a quelle presenti e pertanto messe a distanza.

Su (Maggie Cheung) e Chow (Tony Leung) sono gli inquilini di un appartamento sovraffollato, subaffittato da un’affiatatissima comunità cinese. Nelle loro camere adiacenti ci abitano insieme ai coniugi, presenze fantasmatiche e rarefatte fino alla sparizione: In the Mood for Love fluidifica la consistenza dei rispettivi matrimoni raccontandoci la messinscena del loro tradimento, tutto in fuoricampo, e le frammentarie esistenze di identità impigliate fra morale e desiderio.

Non saremo come loro

Maggie Cheung e Tony Leung in In the Mood for Love
Maggie Cheung e Tony Leung in In the Mood for Love – @ Lucky Red

L’incontro emotivo tra Su e Chow ha origine dalla scoperta della relazione extraconiugale tra i vicendevoli consorti, ma il cineasta non indugia sulla condanna di quell’azione. Se ne serve, casomai, per alludere allo sfociare emancipato di un amore che ha scelto di esistere, anche se nel compromesso doloroso del dramma che ne è derivato. Per un unico e brevissimo attimo, infatti, prima che il marito di Su e la moglie di Chow spariscano dallo schermo, Wong Kar-wai ci mostra la signora Chow piangere prostrata sotto la doccia – a testimonianza di una camera sensibile all’emotività umana, specie quando universalmente normata dal controllo di rigidi vincoli morali.

In the Mood for Love ci racconta di quella morale, corporizzandola nell’intromissione del vicinato e sminuzzandola nella sopraffazione di uno spazio fisico e mentale da cui estromettere qualsiasi accenno di intimità. I protagonisti di questa storia si ripetono più volte di non voler essere come i propri coniugi, di desiderare una via alternativa entro cui far vivere il loro legame. Quella via la cercano visceralmente per tutto il film, polverizzandosi dentro regimi rappresentazionali sdoppiati, speculari e poi definitivamente erosi.

Nel modulare l’affinità di Chow e Su, Wong Kar-wai lavora con rigore, realizzando uno dei suoi film stilisticamente più disciplinati e insieme stratificati – dove tutto il linguaggio cinematografico collabora alla restituzione di una poetica struggente, sospesa ed emotivamente sfaldata.

Un’assenza nello spazio…

Maggie Cheung in una scena di In the Mood for Love
Maggie Cheung in una scena di In the Mood for Love – @ Lucky Red

Se raramente la realtà è stata per Wong Kar-wai uno spazio cui accedere frontalmente, ma al contrario si è interposta come luogo da osservare in forma mediata e con difficoltà, In the Mood for Love estremizza tale principio linguistico al fine di formalizzare passo per passo la storia di un’assenza. Partendo dalle figure umane protagoniste, il film cesella la profondità della crisi personale e coniugale intorno alla fugacità della propria presenza sullo schermo.

Fin dalla prima inquadratura la camera di In the Mood for Love fatica a penetrare negli ambienti: si posiziona in una porzione di spazio ristretta, settorializzando il campo e le posture al di qua di pareti, porte e interpunzioni che impediscono la visione. Contemporaneamente, però, nel suo voyeuristico darsi e privarsi dello sguardo, la macchina di Wong Kar-wai attesta la propria adesione empatica al sentimento e alla solitudine dei due, partecipandovi dove possibile e spiandoli da qualsiasi fessura rimasta aperta.

Quando a prevaricare su Chow e Su non è la ristrettezza dei luoghi, è l’immagine a segmentarli internamente in rifrazioni, sfocature, ombre e duplicati che ne simulano l’identità – giocando a parti invertite a mascherare e smascherare il loro sentire. Molto spesso, infatti, i corpi e i volti dei due protagonisti tradiscono una finzione che rivela il controllo su un sentimento incapace di sgorgare. Altrettanto spesso, però, sono proprio le loro riproduzioni speculari a tramutarsi in spazi elettivi in cui far fluire libera la complicità, palesando nei riflessi un’autenticità nascosta sotto strati di artefatta corporeità. Quadri dentro quadri che assolutizzano l’egemonia degli spazi e degli oggetti sugli individui, raggelandoli in un tempo immobile, disteso e infinitamente ripetuto: come quello della memoria.

…e nel tempo

Un'immagine di In the Mood for Love
Un’immagine di In the Mood for Love – @ Lucky Red

Così come ciascun elemento del profilmico contribuisce alla definizione di una distanza e un imprigionamento, anche il tempo omette nel montaggio ogni svolta decisiva alla conoscenza reciproca, negando all’immagine cinematografica una compiuta partecipazione alla loro intesa. In the Mood for Love diviene allora il racconto di tutto ciò che avviene negli intervalli fra gli eventi di valore della relazione di Chow e Su, la traccia di un amore insondabile.

La memoria volatile di cui è fatto il film ne influenza la disgregazione temporale, articolandosi nella ripetizione traslata, rallentata e condensata di eventi sempre uguali e continuamente diversi, nel ritorno cadenzato di situazioni che si assomigliano mutando e innescando inediti orizzonti narrativi. In the Mood for Love si muove in avanti replicandosi incessantemente, estendendosi e ritraendosi tra un tempo oggettivo e uno soggettivo, fino al raggiungimento di un’epifania che ha il valore della rinuncia e lo slancio evocativo di una definitiva desertificazione identitaria.

La drammaturgia del sentimento

I protagonisti di In the Mood for Love
I protagonisti di In the Mood for Love – @ Lucky Red

Non solo In the Mood for Love si chiude con la consegna della storia privata a quella pubblica, con la scomparsa dei suoi protagonisti, assenti in un ambiente sconfinato che pre-esiste e sopravvive alle emozioni incompiute dei singoli. Wong Kar-wai raddoppia la posta in gioco e ci racconta di quell’evanescente presenza nel mondo per tutta la durata del suo film.

Per farlo elimina le figure dei coniugi, disincarnandoli e consentendo a Chow e Su di impersonarli, di familiarizzare tra loro attraverso la drammaturgia dell’esperienza infedele dei propri consorti. I due interpretano le parti del proprio marito e della propria moglie, si interrogano sulla nascita del loro legame, esperiscono in modo decompresso i turbamenti suscitati da quel tradimento.

Così facendo, tuttavia, la vicendevole unità identitaria finisce per distillarsi in mille pezzi – diventando recita, transfert, repressione e simulazione di una gamma sintetica di sentimenti. A poco a poco, in quel gioco di maschere e simulazioni, tra le ellissi della storia e all’interno di ciascun fuoricampo in cui non ci viene concesso di entrare, qualcosa inizia a sbocciare. Qualcosa che non riesce a esprimersi a parole e tantomeno a tradursi in immagine. Qualcosa di epidermico, bruciante, nutrito da ogni esitazione, parola non detta e incontro mancato.

In the Mood for Love, un amore fuoricampo

Un'immagine di In the Mood for Love
Un’immagine di In the Mood for Love – @ Lucky Red

Gradualmente, allora, la moltiplicazione delle parti diventa lo sforzo di un contenimento emotivo, la volontà di non cedere alla tentazione, al desiderio, alla storia che i coniugi hanno già scritto e vissuto per loro. I piani della realtà finiscono per fondersi e confondersi con quelli dell’immaginazione, dell’abnegazione, della messinscena (non compromettente) dell’emozione. Tutto diventa compensazione, contributo essenziale al collasso di un film che più si priva di sé stesso e più diventa capace di restituire l’universale riconoscibilità di un sentimento purissimo e auto-mutilato, inafferrabile ma sempre palpabile.

Di rara bellezza e di indescrivibile sincerità: l’amore di Su e Chow scivola dalle mani mentre inonda lo schermo, resta aggrappato alla pelle, continua a riempire i cuori. Così come una volta i segreti venivano confessati nel buco del tronco di un albero e lì sigillati per sempre – 25 anni fa, e ancora oggi, Wong Kar-wai quel segreto decide di condividerlo con noi.

Romantico e incapace di invecchiare, In the Mood for Love ci affida le insurrezioni emozionali di un amore inappagato, la prosecuzione incompleta di personaggi provenienti dal passato (Days of Being Wild) e ritrovati nel futuro (2046). E poi ci chiede di non dimenticare, di continuare a preservare la memoria residuale di un amore fuoricampo, tremendamente vivo nel suo non essersi ancora mai vissuto.

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Laureata in CAM (Cinema, Arti della scena, Musica e Media) e Comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino. Attualmente collaboratrice di ScreenWorld.it e NPC Magazine. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità e le esperienze degli altri. Nella vita scrivo, studio e mi circondo di cinema, perché penso non esista niente di più bello.