Nel 1937 in un Giappone già militarista, ma in cui persisteva un anelito di libertà, esce un libro destinato a diventare un classico per ragazzi per diverse generazioni a venire. Un racconto, a metà tra romanzo di formazione e saggio filosofico, che si poneva l’ambizioso obiettivo di guidare il giovane lettore alla scoperta del mondo attraverso le esperienze del giovane protagonista. E voi come vivrete? questo il titolo del romanzo; titolo con cui, in madrepatria, è stato distribuito anche Il ragazzo e l’airone, l’ultimo film di Hayao Miyazaki. Eppure il film non è in alcun modo una trasposizione del libro di Genzaburō Yoshino pur mantenendo alcune tematiche universali come punto di partenza per il viaggio di Mahito accanto ad altre tipiche della cultura di riferimento. Inserendo infatti il romanzo all’interno della narrazione stessa, in una delicata sovrapposizione tra la nostra realtà e quella filmica, Miyazaki fa riferimento al vissuto collettivo del suo paese.
Una summa del lavoro dello stesso sensei dell’animazione che, con la sua aura da opera finale, raccoglie a piene mani elementi della cultura di un popolo riuscendo al contempo a raccontare una storia che non conosce confini. Impregnato di animismo e di quel verde brillante che si vede solo in Giappone, così come di temi legati al vissuto di ognuno di noi, Il ragazzo e l’airone è una riflessione sulla necessità di costruire un futuro sulle solide fondamenta della memoria e sulle infinite possibilità della vita stessa.
I vivi e i morti
I temi dell’abbracciare il futuro e dello scegliere come vivere la propria vita sono infatti centrali nel film e possono essere interpretati su più livelli. Non è un caso che l’interferenza del mondo dei vivi con quello dei morti assuma un significato importante, muovendo tutta la narrazione. Mahito, nella cruciale età dell’adolescenza, fa i conti con le conseguenze della perdita della madre oltre che con quelle di un paese in cui aleggia lo spettro della guerra. Un conflitto esterno, che richiama ovviamente una memoria storica collettiva, ma anche interiore che segue il protagonista lontano dagli orrori di Tokyo, nella vecchia tenuta di famiglia in cui il ragazzo si trasferisce insieme al padre, il quale aspetta un figlio dalla nuova compagna.
Proprio qui il senso di inquietudine di Mahito, incapace di integrarsi a scuola così come di elaborare il lutto accettando l’amorevole Natsuko come figura materna, si incarna in un misterioso airone cinerino: animale che, nella tradizione nipponica, è legato all’al di là e agli spiriti e che nel film assume – non a caso, le sembianze di uno yōkai, creatura mitologica sovrannaturale. Sarà proprio lui ad accompagnare Mahito in un non luogo in cui i vivi incontrano i morti, in cui il passato incontra il futuro e ogni versione possibile di qualunque tempo. L’incontro con i morti è fondamentale non solo per il superamento del lutto e per la presa di coscienza di sé, ma anche per ribadire quel senso di sacralità nipponico secondo cui tutto vive e la morte non è mai sinonimo di fine.
Venire al mondo
Vivere quindi significa curare le proprie ferite provando a essere la versione migliore di sé. A questo proposito l’abbracciare il futuro finale di Mahito equivale al venire al mondo dei piccoli Warawara: prendere consapevolezza di chi si è, di chi si è stati e di chi si vorrebbe essere senza sfuggire alla realtà. Qualcosa di completamente opposto rispetto a quanto fatto dal prozio, la cui torre simboleggia proprio il desiderio di tentare di costruire un mondo altro, magari estraneo alle sofferenze. Infatti è proprio in uno dei tanti mondi collegati dalla torre che Natsuko, sentendosi respinta dal nipote-figlio, si rifugia per partorire il suo bambino.
I gesti di Mahito di riconoscere Natsuko come madre prima e di rinunciare a costruire la propria torre poi, sono perciò una presa di coscienza della vita stessa. Non c’è rimedio alla morte, se non l’amore, inoltre anche rinchiudendosi in un mondo ideale il male può fare capolino. Tornare alla realtà per costruire un futuro diventa così un atto di coraggio e speranza. A questo proposito Miyazaki sceglie di concludere la storia con il ritorno di Mahito e la sua famiglia in una Tokyo post-bellica sicuramente dilaniata ma desiderosa di tornare vivere.
Persistenza della memoria
Non c’è futuro senza memoria e a questo proposito il ruolo di Himi è cruciale nel film. Incarnazione giovanile di Hisako, madre di Mahito, che visitò il non luogo dei vivi e dei morti da ragazzina, Himi custodisce sia la memoria del passato e del futuro. Tornando nel suo tempo per diventare la madre del protagonista e accettando il presagio di morte che dice di non temere, Himi rappresenta quella ciclicità che è propria del fuoco stesso. Elemento di vita e morte, che marchia e purifica e che, guardacaso, Miyazaki sceglie per definire l’identità di un personaggio chiave nella narrazione.
È proprio l’incontro con la futura madre che apre gli occhi a Mahito sulla necessità di guardare al futuro senza dimenticare un passato che a volte può fare male, per parafrase un altro grande film d’animazione che parlava di cicli di vita e morte. Del resto non smetteremo mai di domandarci se l’essenza di chi abbiamo amato resti in qualche forma da qualche parte o come dobbiamo vivere la nostra vita; Miyazaki ci ricorda che le cicatrici personali, o quelle di un popolo, prima o poi smettono di sanguinare ma la loro memoria è necessaria per costruire le basi del nostro futuro.
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