Era il 21 giugno 1996 quando sbarcava nelle sale statunitensi il trentaquattresimo lungometraggio d’animazione secondo il canone Disney. Un piccolo, grande film che al debutto non ha ottenuto il successo che meritava ma che, con il passare dei decenni, come il vino più pregiato, ha acquistato sapore, corpo e valore. Stiamo parlando de Il Gobbo di Notre-Dame, secondo outing dietro la macchina da presa per la coppia formata da Gary Trousdale e Kirk Wise dopo l’exploit al botteghino mondiale nel 1991 de La Bella e la Bestia. Un lungometraggio, quello, con cui Il Gobbo di Notre-Dame sembra avere molti più punti in comune di quanto non sembri.
Ode alla deformità
Sui punti di contatto con La Bella e la Bestia torneremo più avanti, ma quello che intanto si può dire de Il Gobbo di Notre-Dame è che il film d’animazione di Trousdale e Wise (molto liberamente ispirato al romanzo gotico “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo) si accosta molto più facilmente a titoli passati della major hollywoodiana come Pocahontas (di un anno più “anziano”) e addirittura Dumbo. Questo perché nel trentaquattresimo classico d’animazione Disney vengono affrontati a muso duro e con una sfacciataggine mai tentata prima dallo studio d’animazione temi sensibili quali la deformità, la diversità nell’aspetto e la xenofobia. Ma andiamo per ordine. Già nel capolavoro del 1941 di Samuel Anderson e Wilfred Jackson l’elefantino dalle orecchie lunghe “che sapeva volare” era uno spietato e commovente inno al valore della diversità; se il tenero elefante faceva della sua deformità un super-potere da lasciare a bocca aperta gli spettatori del circo, il triste campanaro Quasimodo nasconde dietro al suo aspetto solo all’apparenza ripugnante un altro potere altrettanto super: quello dell’empatia, della generosità, del coraggio nonostante la sua vita segregata. In un decennio, quello degli anni ’90, in cui il cosiddetto Rinascimento Disney produceva protagonisti affascinanti ed attraenti sia per il piccolo pubblico maschile che per quello femminile, il personaggio di Quasimodo era una graditissima eccezione alla regola.
Un’eccezione enfatizzata anche da come Il Gobbo di Notre-Dame ha saputo affrontare, affrancandosi sempre di più da quello che nella nostra contemporaneità potrebbe essere definito politically correct, il tema del razzismo e della xenofobia. Lo aveva già fatto egregiamente l’anno prima Pocahontas, Trousdale e Wise li reiterano introducendo uno dei villain più sinistri che la produzione dell’allora Walt Disney Feature Animation aveva mai realizzato: il Giudice Claude Frollo.
“Scegli me o il fuoco!”
Nonostante nel romanzo originale Claude Frollo vestisse i panni del misterioso e perverso arcidiacono della cattedrale parigina, la Walt Disney Feature Animation sceglie saggiamente la strada dell’inevitabile edulcorazione di temi, narrazioni e toni rispetto a Victor Hugo e realizza il vero e proprio personaggio catalizzatore delle correnti innovative e senza precedenti che Il Gobbo di Notre-Dame portava con sé alla sua uscita. Il villain del classico Disney svetta incontrovertibilmente sulla precedente (e forse, anche successiva) galleria nutritissima di cattivi animati raccogliendo un testimone inaudito fino ad allora per la Casa di Topolino: Claude Frollo, inaspettatamente anche nel cartoon di Trousdale e Wise, viene dipinto come un uomo delle istituzioni timorato di Dio, la cui mente inizia a vacillare nel momento in cui la zingara Esmeralda entra nei suoi pensieri peccaminosi; se non riuscirà ad averla, metterà a ferro e fuoco l’intera città di Parigi.
Per enfatizzare i pensieri lussuriosi di Frollo, Alan Menken assieme al paroliere Stephen Schwartz realizza quella che ad oggi può essere considerata a tutti gli effetti la canzone Disney più adulta ed esplicita della sua storia; in “Heaven’s Light/Hellfire” i canti gregoriani in latino fanno da sinistro contrappunto ad una sequenza demoniaca, onirica e febbricitante. In piena notte, di fronte al grande camino acceso nella sua spoglia magione, Frollo affida la sua anima tremolante alla Beata Vergine Maria, promettendole che avrebbe bruciato al rogo la zingara Esmeralda se quest’ultima non avesse acconsentito a stare con lui. Come affermano le parole di Menken, “Ti aspetto all’inferno, le fiamme oppure mia!”. E tutto questo, in barba ai canonici dettami di edulcorazione per il pubblico di più piccini: cosa aveva veramente in testa la Disney nel mostrare temi e sequenze animate così esplicite? Anche in questo, Il Gobbo di Notre-Dame sembra aver precorso i tempi nella storia dell’animazione, proprio come avevano fatto prima Dumbo e Pocahontas, eccezioni d’oro alla ferrea regola Disney.
Un capolavoro di architettura animata
Uno dei più grandi valori aggiunti de Il Gobbo di Notre-Dame è quello di essere riuscito a trasportare lo spettatore di ogni età all’interno di una Parigi medievale suggestiva e familiare. Molto di questo merito va allo straordinario team di animatori e disegnatori che hanno messo al centro dell’attenzione narrativa la grande cattedrale gotica della capitale francese. Nessun dettaglio architettonico di Notre-Dame sembra essere sfuggito al team creativo dietro al film del 1996, amplificando il senso di claustrofobia della vita segregata di Quasimodo e di fervore religioso dell’epoca medievale. Un marchio fabbrica che ha reso negli anni a rendere riconoscibilissimo il film Disney rispetto ai suoi precedenti e successivi lungometraggi animati, e forse “cugino” lontano ma vicino all’altro film gotico del duo registico, ovvero il sinistro La Bella e la Bestia, che ebbe però maggiore eco. Un tentativo di democraticità dell’audience cinematografica, quello della major nel voler raccogliere con questo adattamento da Victor Hugo il maggior numeri di spettatori adulti e minorenni, che nell’anno dell’uscita nelle sale non ha però regalato i suoi frutti più maturi.
Forse è tempo di rivalutarlo
Alla sua uscita nelle sale statunitensi a partire dal 21 giugno 1996, il film incassò nel suo primo week-end oltre 21 milioni di dollari, otto in meno rispetto al risultato ottenuto l’anno precedente da Pocahontas, che fu a suo tempo un risultato inferiore alle aspettative nell’anno post-Il Re Leone, campione di incassi senza precedenti nel 1994. In totale, Il Gobbo di Notre-Dame incassò circa 100 milioni di dollari, ben al di sotto della media dello studio hollywoodiano. Dopo quel risultato, generato soprattutto da un passaparola di perplessità sul risultato finale del film a cavallo tra sguaiata ironia targettizzata per i più piccini e tematiche terribilmente adulte, il cosiddetto “Rinascimento Disney” prese la sua fase “calante” al botteghino con titoli come Hercules, Mulan e Tarzan, che mai più replicarono i fasti di successi strepitosi come La sirenetta, La Bella e la Bestia e Il Re Leone.
Il Gobbo di Notre-Dame sembra quindi essersi ritagliato un posto nella storia dell’animazione come spartiacque essenziale per la Disney, per tante ragioni. Se la critica internazionale al tempo aveva fortemente penalizzato il film tacciandolo come “problematico”, a ragion veduta ci verrebbe invece da affermare che l’adattamento animato di Gary Trousdale e Kirk Wise sia tra i gioielli più ingiustamente sottovalutati della sconfinata produzione di Topolino.
Sì, forse dopo 26 anni dall’uscita nelle sale, è tempo di rivalutare Il Gobbo di Notre-Dame, un capolavoro di cui ancora si parla troppo poco.