The Last Duel quasi ignorato, West Side Story passato in sordina come se nulla fosse, La fiera delle illusioni che si rivela un flop. Ci vorrebbe davvero un mentalista. Qualcuno capace di entrare nelle teste del pubblico per capire cosa diavolo stia succedendo. Una cosa è certa: il grande cinema d’autore non funziona più. Il covid ha alterato il senso del gusto. La pandemia ha alterato percezioni, cambiato equilibri e ci sta dimostrando senza pietà che grandi registi e grandi cast non bastano più per portare la gente al cinema. Amara verità che svela un’illusione beffarda: la fiera delle illusioni siamo anche noi cinefili che facciamo finta di niente, che ci parliamo addosso a suon di recensioni e analisi da leccarsi i baffi sempre meno lette, che non accettiamo il fatto di essere parte di una nicchia sempre più piccola, stretta e autoreferenziale. Una bolla fragilissima pronta a scoppiare da un momento all’altro.
Però gli ultimi cinque mesi di cinema ci hanno sbattuto in faccia una realtà impossibile da ignorare: il cinema in sala è un’esperienza associata solo a un certo tipo di film. Allora cerchiamo di andare oltre la retorica magia del cinema per capire come è cambiata l’esperienza dell’andare (e del non andare più) al cinema.
Comfort zone
Mettiamo da parte i voli pindarici, partiamo dai dati. Facciamo una cosa banalissima: analizziamo il box office internazionale dall’inizio della pandemia a oggi. Nei primi dieci incassi globali del mercato occidentale troviamo soltanto una proprietà intellettuale originale, ovvero non proveniente da saghe o trasposizioni da altri media. Il film in questione è Tenet di Christopher Nolan (decimo). Nella Top 10 cinque film sono cinecomic Marvel/Sony (Spider-Man: No Way Home, Venom – La furia di Carnage, Eternals, Shang-Chi e Black Widow). Chiudono il cerchio tre capitoli di saghe (No Time To Die, Godzilla VS Kong, Fast & Furious 9) e l’ambizioso remake di Dune. E fin qui, niente di strano. Pandemia o meno, è molto probabile che i film più visti al cinema sarebbero comunque stati questi.
Il problema non è il dominio del cinema seriale mainstream, non è la dipendenza del pubblico dall’usato sicuro. Il problema è il divario, o meglio, l’abisso tra i blockbuster e il grande cinema d’autore. Il problema è associare l’esperienza del cinema al cinema soltanto a un certo tipo di film. Una spaccatura sempre più larga e profonda, in cui si sente un’eco fortissima. Come quando si urla nel vuoto.
Da una parte il cinema “seriale” rassicura, coinvolge, riempie poltrone senza troppe remore, rende l’esperienza della sala ancora preferibile al divano. Dall’altra, invece, non bastano registi premi Oscar, non bastano i faccioni delle star sulla locandina, non bastano generi che da sempre hanno attratto un certo tipo di pubblico. Ecco, appunto, un certo tipo di pubblico. Forse la chiave è qui: c’è un prototipo di spettatore che al cinema non ci va più. Proviamo a capire chi è e dove preferisce andare. O meglio, rimanere.
No Way Cinema
Non ci improvviseremo Sherlock Holmes. Il box office è una lente di ingrandimento già puntata sul mistero. Senza dimenticare i soliti tre indizi che fanno una prova. Le tracce sono sempre quelle tre: i flop di The Last Duel, West Side Story e La fiera delle illusioni. Punti in comune? Tre film d’autore quasi del tutto ignorati dal pubblico. Sale deserte o semivuote nei migliori dei casi. Parliamo di Ridley Scott, Steven Spielberg e Guillermo del Toro. Non cinema d’autore di nicchia, ma tre nomi altisonanti e popolari, che il pubblico in sala lo hanno sempre portato “sulla fiducia”. The Last Duel e Nightmare Alley si appoggiavano su due generi forti e codificati come il dramma storico e il noir misterioso, mentre un remake di un cult come West Side Story non aveva bisogno di presentazioni. Senza dimenticare i cast corali “all star” orchestrati da Scott e Del Toro. Nomi che “una volta” erano ammiccamenti che il pubblico accoglieva volentieri. Nulla di tutto questo è servito per evitare il tonfo. E allora, rieccoci ancora a sbattere la testa al muro: qual è il problema? La risposta ce la dà Guillermo del Toro. Parole semplici, schiette, lucide: “Oggi fare film per un pubblico adulto è sempre più difficile”. Ecco il dente dolente. Ecco dove batte la lingua. Sembra che a tradire il cinema al cinema siano proprio i cinefili stessi. La vecchia guardia che il giovedì correva in sala per le nuove uscite. I fedelissimi del sabato sera o le amiche affezionate della domenica pomeriggio. Proprio loro. Un paradosso che sicuramente ha delle spiegazioni pratiche.
Pratiche, perché è innegabile che le piattaforme abbiano in parte impigrito soprattutto il pubblico più maturo, affascinato dalla comodità dello streaming. Pratiche, perché la percezione del cinema come “luogo chiuso in cui è facile contagiarsi” ha preso forma sin dai primi mesi di pandemia e non è mai tramontata. Preoccupazione ancora più pressante su una fascia di pubblico più matura ed esposta ai rischi del virus. Purtroppo non sono bastate le sale quasi mai piene (dove il distanziamento era automatico anche prima che fosse imposto) o la sicurezza accertata di un luogo così controllato come il cinema. Non sono serviti nemmeno i festival gestiti in totale sicurezza (come Venezia 2020, quando ancora i vaccini non c’erano). Anzi, la demonizzazione del luogo-cinema è stato favorita dalle misure di sicurezza adottate. I bar chiusi, l’impossibilità di mangiare e bere in sala, l’obbligo di una mascherina pesante come la FFP2 sempre in faccia per due ore. Tutte costrizioni che hanno castrato il cinema, privandolo della sua dimensione spensierata. Altrove si poteva far finta di niente anche solo per il tempo di un boccone, mentre in sala no. Il cinema ci ha ricordato tutto il tempo l’odore del nostro fiato. Il che non ha aiutato per niente, diciamolo.
Insomma, per una serie di motivi c’è una grossa fetta di pubblico che sta tradendo il cinema. Pare che siano proprio i “vecchi cinefili” e che il problema non siano tanto i film, perché appena arrivano in streaming poi vengono visti e apprezzati. Per informazioni rivolgersi a Ridley Scott e al suo The Last Duel, che ha avuto una seconda (o forse dovremmo dire “prima”) vita su Disney+.
Rifugiarsi nel passato
Questo scollamento tra vecchio cinema d’autore e pubblico sembra quasi riecheggiare nei film stessi. Prendiamo sempre Del Toro, Spielberg e Scott come ambasciatori. Le loro ultime fatiche parlano di tempi lontani, epoche passate, sembrano quasi rifugiarsi nel passato per allontanarsi da un mondo contemporaneo in cui non si riconoscono più. The Last Duel si è soltanto travestito da antico dramma storico, ma ha creato dei solidi ponti tra il suo Medioevo gretto e la nostra epoca. Il tema al centro del racconto è la percezione della violenza e dello stupro femminile, e Scott è riuscito a creare delle connessioni credibili tra ieri e oggi. Del Toro non ha solo confezionato un solido noir “vecchio stampo” ambientato negli anni Quaranta, ma ha rispolverato un modo di fare cinema che sembra davvero uscito dagli anni Quaranta per messa in scena e recitazione. Infine Spielberg si messo a fare l’archeologo come ai tempi di Indiana Jones: ha preso un cimelio storico come West Side Story, lo ha tirato a lucido e gli ha ridonato nuova luce come solo un maestro sa fare. Ed è proprio West Side Story a regalarci un’immagine emblematica: giovani di belle speranze che ballano tra le macerie di un mondo in rovina. È forse il cinema stesso. Un ballerino appassionato sempre in movimento, che non smette di credere nel futuro, nonostante attorno a lui ci sia un deserto. Come quello delle sale in cui vengono proiettati bellissimi film davanti a poltrone vuote.