Il fatto che il cinema hollywoodiano stia attraversando una fase, per così dire, incerta non è di certo una novità. Tra tante proposte e grandi franchise che perdono appeal, le storiche major e i nuovi colossi navigano a vista. La notizia che la Warner avesse deciso di archiviare il suo Coyote vs. Acme ci ha fatto venir voglia di guardare dentro il vaso di Pandora per capire come e perché questa incertezza si ripercuota anche sulla creatività. Sebbene a seguito delle petizioni, la major abbia deciso di vendere il film ultimato a un altro distributore (una sorte migliore di Batgirl insomma) la questione resta aperta.
Il fatto che una major storica preferisca disfarsi, vendendo o archiviando fino a nuovo ordine, un prodotto legato a una delle sue IP più riconoscibili fa riflettere su un fenomeno che non riguarda solo lo studio dei Looney Toons e della DC, ma tutta Hollywood a 360 gradi. Cancellare un film in corso di produzione o impedirne la distribuzione a processo ultimato è qualcosa che si sta verificando spesso e l’impressione è che sia sintomo di qualcosa che non va. Certo, a volte queste storie possono anche finire bene, prendiamo il caso di Nimona: dato per perso dopo la chiusura dei Blue Sky Studios e completato grazie all’interno di Netflix e Annapurna Pictures. Ovviamente un discorso del genere non si limita al cinema ma comprende anche le serie tv, pensiamo a Willow costata 106 milioni di dollari e fatta sparire dal catalogo di Disney+ a seguito del mancato rinnovo.
Che cosa significa tutto questo? Noi ci abbiamo riflettuto attentamente provando a dare delle risposte che non mirano a essere assolute o esaustive ma il cui obiettivo è quello di sollevare un problema riguardante la situazione attuale dell’industria audiovisiva occidentale, in cui Hollywood è ancora un punto di riferimento fondamentale.
Un clima di incertezza
Non sappiamo come si concluderà la vicenda Coyote vs. Acme tuttavia ci sembra esemplificativa del fatto che ormai da qualche tempo anche le IP più forti non sono sinonimo di successo. Basti pensare al caso Marvel con un MCU in stagnazione anche a causa di un modello produttivo basato su contenuti distribuiti non più solo al cinema, ma anche in piattaforma. Qualcosa che, dopo l’interesse iniziale, ha generato confusione e una sensazione di obbligo alla visione, pena il restare esclusi dall’esperienza. Una manovra che prevede un grande investimento, sia per la produzione che per il consumatore. In un’epoca in cui i cinema traboccano di titoli, le sale sono piene di rado e le piattaforme streaming, scoppiata la bolla iniziale, aumentano i prezzi degli abbonamenti.
Non si tratta più “solo” del solito “me lo guardo quando esce in streaming”. La sensazione è che il pubblico generalista sia perso in un’offerta sterminata, specchio di quell’incertezza che riguarda in primis i produttori. C’è però un grande “ma”. Come abbiamo visto questa estate con Barbie e Oppenheimer – e più recentemente con il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, per citare un esempio tutto italiano – non è vero che il pubblico non vuole andare al cinema. Le persone in sala ci vogliono andare, eccome, ma sono attirate dall’evento, da quella sensazione di far parte di qualcosa di più grande che sta accadendo attorno a loro.
Se ci pensiamo non è niente di troppo diverso da quello che accadeva 20, 30, 40 anni fa con la differenza che nel mondo iperconnesso di oggi, tutto è più amplificato. La sostanza è però è la stessa. Inoltre, a proposito di Barbie, abbiamo anche una IP importante che è riuscita nel suo intento, al contrario di quello che è accaduto per altre e, ironia della sorte, siamo sempre a casa Warner. Che cosa è accaduto di diverso? Molto semplicemente ci hanno raccontato una storia che non ci aspettavamo e questo ha generato curiosità. Pensiamoci: del film se ne è parlato a prescindere dal gusto personale, probabilmente perché ha avuto il coraggio di apparire diverso rispetto a tanti altri prodotti a cui siamo abituati.
Sulla creatività
Questo ci fa riflettere sul fatto che, purtroppo, assistiamo a un riproporsi di modelli – spesso onerosissimi come The Flash o Indiana Jones e il quadrante del destino – in cui il contenuto, anche se ben fatto e godibile, sembra troppo spesso essere al servizio del contenitore. Un modus operandi in cui (forse?) i grandi produttori si sentono ancora al sicuro ma che palesemente ha smesso di funzionare nel momento in cui qualcuno ha scelto di osare. Guadagnandosi non tanto il plauso degli addetti ai lavori, ma soprattutto il favore del pubblico. Per tornare sul cinema d’animazione uno dei film più innovativi degli ultimi anni è senza alcun dubbio Spider-Man: Un Nuovo Universo.
Con questo film Sony Animation ha esplorato nuove tecniche d’animazione omaggiando i cinecomic e il fumetto, portando il cinema su un altro livello. Un approccio che il successivo Spider-Man: Across the Spider-Man ha scelto di proseguire alzando l’asticella e portandosi a casa uno dei migliori sequel degli ultimi anni. Perché non si tratta del voler usare o meno IP forti, di optare per un sequel o un remake, il pubblico vuole delle belle storie in cui potersi rifugiare ma anche un appeal fresco. Per fare questo però è necessario osare.
Il modello giapponese
A proposito di ciò, buttiamo un occhio verso Oriente prendendo sempre come esempio di riferimento l’animazione. In Giappone l’industria degli anime genera circa 200 prodotti ogni anno, a loro volta suddivisi in episodi se si tratta di serie televisive. Un panorama talmente ampio e strutturato in cui chiaramente la quantità non può andare sempre di pari passo con la qualità, ma in cui i grandi studi d’animazione investono risorse, creative ed economiche, per i loro prodotti di punta. Questo si traduce in produzioni mastodontiche in cui riesce ancora a trovare impiego l’animazione tradizionale, come Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki (qui la nostra recensione in anteprima), in uscita nelle sale italiane il 1 gennaio 2024.
Ma anche prodotti seriali che, pur essendo adattamenti del manga di riferimento, non temono di sperimentare né sul fronte visivo né su quello tematico. Un diverso approccio creativo che sicuramente si fonda su basi culturali differenti e altri modelli di business, e che complice un’attenzione sempre maggiore del pubblico occidentale nei confronti dei prodotti audiovisivi giapponesi (e ormai anche sud coreani), ci fa riflettere. Soprattutto se messo a paragone con i prodotti di “casa nostra” che troppo spesso appaiono meno freschi.
Una fase di passaggio
Quello che è certo è che l’industria audiovisiva globale e, nello specifico, quella occidentale Hollywood-centrica stia attraversando una fase di passaggio che deriva da tempi incerti: né è prova il più lungo sciopero degli attori mai verificatosi e conclusosi da non molto. La frattura ha radici profonde che affondano in un presente complesso e velocissimo, in cui è complicato prevedere i trend di mercato, anticipare i gusti del pubblico e creare qualcosa che risulti allo stesso nuovo e familiare.
Va quindi da sé che questa profonda incertezza incida sul ciclo di vita del prodotto stesso, sballottato nel mare di una distribuzione ibrida, che troppo spesso passa dalla sala alla piattaforma; e per quanto possiamo convincerci del contrario una fetta importante di pubblico questo l’ha capito. La soluzione? Non spetta a noi provare a indovinare. Possiamo solo augurarci che l’industria possa trovare una rinnovata spregiudicatezza che stia al passo con i nostri tempi, una follia coraggiosa. Quel coraggio un po’ matto, marchio di fabbrica dei Looney Toons, che per la prima volta dal 1930 sono stati cacciati di casa.
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