“Non sono gli anni, amore, sono i chilometri”, diceva Indiana Jones in I predatori dell’arca perduta a Marion, l’amore della sua vita. Aveva 37 anni, stando alla biografia fittizia che ne fa risalire la nascita al 1899. L’attore che lo interpretava, Harrison Ford, ne aveva 39. Oggi però, all’alba del quinto film dedicato all’archeologo avventuriero, con l’attore che di anni ne ha 80 e il personaggio che ne avrà 70 (essendo il film ambientato nel 1969), forse l’età comincia a contare qualcosa.
It’s all about the money (?)
Indiana Jones 5 arriverà sugli schermi mondiali nel giugno del 2023 e già prima di partire aveva attirato su di sé una messe di dubbi piuttosto voluminosa: Steven Spielberg, regista di tutti i precedenti film della saga si era fatto indietro (forse scottato dal modo in cui i fan e i cinefili hanno accolto il quarto, Il regno del teschio di cristallo, ossia ingiustamente male, ma non è questo il luogo per parlarne) restando solo come produttore, al suo posto James Mangold che ha dimestichezza con le ricostruzioni storiche ma che con quel tipo di avventura non ha mai avuto a che fare; e poi, se Ford a 65 anni ancora se la cavava – seppur con il supporto di effetti digitali e controfigure – oggi, cosa succederà? Poi, nei giorni scorsi, la notizia che risponde alla domanda: la produzione userà il de-aging, ossia la tecnologia digitale che ringiovanisce l’immagine degli attori attraverso lo studio e la rielaborazione dei loro lineamenti giovanili, raccolti e analizzati tramite foto e video. Per ora, da ciò che sappiamo, sarà usato solo nella parte di film ambientata negli anni ’40 e Ford l’ha definita credibile, sebbene inquietante.
Così viene in mente la domanda che riassume tutti i dubbi che abbiamo da un po’ di tempo, e che divengono sempre più concreti con l’avvicinarsi della presentazione del film, l’arrivo di immagini, copertine, materiale promozionale che pavimenta la strada che porta a quell’uscita: ha senso fare un film su un avventuriero che non potrebbe più permettersi di affrontare quelle avventure? Che scopo ha piegare la natura alla tecnologia per produrre un film non verosimile? Perché realizzare Indiana Jones 5 se il suo creatore e artefice primo (in società con George Lucas e Lawrence Kasdan) sembra disinteressato e forse, sotto sotto scettico? Sono domande che hanno un retrogusto moralistico e a cui, se vogliamo rispondere senza il paraocchi della nostalgia per la Hollywood del passato, o peggio dei film che vedevamo da bambini, dobbiamo cambiare la prospettiva. Di solito a queste domande si risponde con il sempreverde “È solo un’operazione commerciale”, una risposta che lascia a bocca aperta, perché pensavamo che l’industria del cinema fosse una no-profit mentre invece il 95% dei suoi lavori sono (anche) operazioni commerciali. Quindi, bisognerebbe porre l’accento se siano solo operazioni commerciali, ma non ci aiuterebbe a risolvere i nostri dubbi, specie perché potremmo saperlo solo vedendo il film.
La morte non basta
Quindi proviamo a capire: se accettiamo – e nessuno ci obbliga – che un quinto Indiana Jones abbia diritto di vedere la luce, dobbiamo cercare di capire se sarebbe potuto esistere con un altro attore, dovendo esistere già con un altro regista. E forse, la risposta è no, perché Spielberg e Lucas, maestri di mitopoiesi, sanno che al cinema (e sottolineo la parola cinema perché è un mezzo di comunicazione che ha strutture mitiche differenti dalla tv, pur condividendone la lingua delle immagini e dei suoni, per le quali il cambio dell’attore è pratica accettata) la creazione di una figura mitologica passa in prima battuta dal corpo e dal volto del suo interprete. Si potrebbe rispondere che Bond confuta l’assunto, ma l’agente segreto diventa mito a partire dalla carta, dal successo dei libri di Fleming, quindi la relazione del personaggio con la sua immagine è più fluida – e non toglie che ogni ricerca del nuovo Bond si porta dietro polemiche e dubbi. Se è ancora in vita, l’attore segue il personaggio lungo gli anni, i chilometri e le possibilità della tecnologia, come hanno fatto sempre Ford e Carrie Fisher nella più recente delle trilogie di Star Wars e personalmente sono convinto che se avesse avuto la tecnologia adatta, Lucas nel 1999 avrebbe usato il de-aging e il deep fake per permettere ad Alec Guinness di essere di nuovo Obi-Wan Kenobi in La minaccia fantasma: invece ha scelto Ewan McGregor dando vita a una doppia icona – che la serie a lui dedicata ha confermato nel bene e nel male.
Se quindi lo status mitico di un personaggio puramente cinematografico non animato passa in modo strettissimo dal suo attore, oggi quello status non ha più il limite della carnalità, della presenza dell’attore, della sua forma e del suo esserci al momento della ripresa, il volto e il corpo dell’attore, slegati dalla sua essenza corporea, sono diventati pura immagine, essendo scomparsa ogni forma di analogia tra ciò che accade davanti al dispositivo che produce l’immagine e l’immagine prodotta (da qui il termine analogico, in contrapposizione a digitale). Quella purezza – aggettivo che non ha connotazioni positive o negative – permette a registi e produttori di fare con le icone ciò che vogliono, di realizzare opere in cui l’attore – e poi i registi, gli sceneggiatori e scenografi, i direttori della fotografia, montatori e via elencando – non saranno più operatori effettivi su un set, ma intelligenze più o meno artificiali. Chiaro, stiamo pensando a futuri scenari per qualcuno distopici in cui saremo tutti probabilmente morti, ma che sono anche possibili veicoli di creatività illimitate.
Un mito senza carne e ossa
Restando all’oggi, le tecnologie che imparano dal passato per inventare il presente e il futuro possono svelare nel cinema (e in altre forme di arti visive) potenzialità da sfruttare. Ovvio, l’idea di una serie di film di Indiana Jones in cui, quando Ford non sarà più tra noi, l’immagine del personaggio resti intatta grazie al deep-fake ci atterrisce – perché volenti o nolenti siamo ancora figli di una cultura novecentesca -; e anche perché sarebbe l’ennesimo frutto avvelenato della nostalgia per cui il passato è sempre bello e non vorremmo mai uscire dagli anni della nostra infanzia, e quindi vanno bene i film che la cristallizzano in ogni pixel e ci riconsegnano impacchettata la nostra memoria cinematografica (perché non fare quindi un Ritorno al futuro 4?).
Ma allora cosa pensare di Bruce Willis che si ritira dalla recitazione per problemi di salute e al tempo stesso vende la sua immagine a una società di deep-fake per continuare a produrre film in cui il suo volto sarà perfettamente integrato su un’altro corpo sempre giovane e bello come sono sempre gli eroi?
Più concretamente, il quinto Indiana Jones, come e più del quarto, dovrà fare i conti con il paradosso che snatura la serie stessa – al netto quindi dei giudizi sui singoli film – ovvero computerizzare un’opera nata invece come omaggio al cinema iper-analogico, delle scenografia di cartapesta e gomma, dei trucchi fatti di materie plastiche e liquide, che dell’artigianalità esposta allo sguardo giocoso dello spettatore, erede dei serial anni ’30 e ’40, faceva bandiera. È uno scarto che non è più colmabile, perché gli effetti computerizzati sono praticamente irrinunciabili, e quindi possiamo – romanticamente, moralisticamente e nostalgicamente – immaginare che questo nuovo Indy diventi a suo modo una specie di riflessione sul senso dell’invecchiamento, del passare del tempo, del passaggio di testimone da un’estetica fatta a mano a una completamente intangibile, un po’ come è stato The Irishman per Scorsese. Se però dobbiamo ascoltare i segnali ne dubiteremo, il finale del quarto film parlava chiaro: mentre il figlio di Jones (Shia LaBeouf) si accingeva a raccogliere il cappello del padre e a indossarlo, l’uomo con la frusta lo prendeva, lo indossava e usciva di scena con il tema di John Williams ad accompagnare i titoli di coda.
Indiana Jones non è pronto ad abbandonare le scene e nemmeno a rinunciare alle sembianze di Harrison Ford. A costo di sfidare le leggi della natura.
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