A ogni nuovo anno che inizia è diventata una consuetudine fare una sorta di classifica dei film più attesi dell’anno. Ci siamo affacciati al 2024 stilando le nostre liste, guardando all’uscita di Joker 2 o del nuovo Beetlejuice: abbiamo scorso i listini delle grandi produzioni, abbiamo cominciato a puntare su quali film saranno presentati al Festival di Cannes e quali, invece, avranno più possibilità di debuttare nella laguna veneziana. Ma ha ancora senso parlare di film più attesi dell’anno?
Meglio, ha ancora senso aspettare l’uscita di una determinata pellicola? Esiste ancora quel sentimento di hype e attesa che letteralmente non ci fa vedere l’ora che esca un determinato lungometraggio?
Lungi dal voler essere il borbottio stanco di un nostalgico del “si stava meglio quando si stava peggio”, questo quesito è uno spunto di riflessione su come la comunicazione cinematografica stia cambiando per stare al passo con i tempi moderni, di come l’hype sia di fatto un’altra cosarispetto all’attesa di un film.
Le nostre vite sono sempre di corsa
Un famoso spot televisivo, diventato iconico, recita una frase che, per quanto semplice catch phrase, nasconde una verità indissolubile: l’attesa del piacere è essa stessa il piacere. Un motto che, di per sé, nasconde vari livelli di retorica, ma che pure si applica alla perfezione al discorso legato all’attesa che si genera intorno a un film. Quando un film è (o, meglio, era) molto atteso, sedersi in sala era solo l’ultimo passaggio di un’esperienza spettatoriale che serviva a fare community, a creare un universo extradiegetico che nutriva l’attesa del pubblico pagante e rendeva i mesi che lo separavano dall’uscita ufficiale un vero e proprio viaggio.
L’attesa dei teaser trailer, dei primi trailer ufficiali, delle prime immagini, così come le notizie centellinate sul cast, sulla trama, sulle svolte narrative: questi erano tutti elementi che produzione, distribuzione e marketing centellinavano o, al contrario, utilizzavano per creare quasi un gioco, un’esperienza da fare e non solo da vivere. L’attesa, però, è qualcosa che si costruisce col tempo, utilizzando una lentezza che nella società odierna non esiste più. Il pubblico è ormai abituato a una fruizione che passa per l’hic et nunc, il “qui” e “ora”. L’attesa è qualcosa che si proietta nel futuro, ma il pubblico di oggi è immerso nel presente.
Complici anche lo stato d’ansia per la situazione politica-economica che ci costringe a uno stato perpetuo di precarietà e la fruizione di social media che fanno della velocità e della voracità il loro marchio distintivo, oggi il pubblico non possiede più l’arte del saper aspettare. In un mondo sempre più capitalista dove se non fatturi non solo non esisti ma non hai nemmeno diritto di lamentarti, il tempo della pazienza e della noia sono ridotti all’osso. Siamo sempre di corsa e abbiamo sempre meno tempo per dedicarci a ciò che esula dai nostri “doveri quotidiani”. Vogliamo tutto e subito, perché non sappiamo quando avremo tempo per “recuperare”. Una teoria che è dimostrata anche dal binge watching ossessivo, per cui, in media, se uno spettatore non riesce subito a recuperare un determinato prodotto di intrattenimento, alla lunga rischia di non vederlo più perché la curiosità scema man mano che diminuisce l’interesse mediatico intorno a quello stesso prodotto.
Allo stesso tempo, però, sembra emergere con sempre maggior chiarezza quanto l’hype e l’attesa intorno a un film siano elementi pressoché imprescindibili, perché più un film si sa far “desiderare” e attendere più ci saranno possibilità che il pubblico lo guardi. Non è infatti un caso se due dei maggiori campioni d’incassi della passata stagione cinematografica internazionale siano stati proprio Barbie e Oppenheimer, due prodotti che non hanno mai dato per scontata l’importanza di una campagna di marketing e che, invece di celarsi dietro un qualche tipo di snobismo, hanno riconosciuto il valore e il potere del pubblico, giocando con lui. Persino il mondo della serialità sta cercando di recuperare il senso di attesa, scegliendo una strategia distributiva che non passa più attraverso l’offerta totale degli episodi, ma attraverso il ritorno agli appuntamenti settimanali.
Troppi contenuti, tutti insieme
Un altro problema è rappresentato senza dubbio dalla mole di prodotti e contenuti che vengono offerti al pubblico. Siamo così pieni di alternative, possibilità e stimoli che il rischio è quello di incorrere in una sorta di bulimia visiva, in cui vediamo tutto, ma non guardiamo niente. Se tutto finisce con l’essere presentato come un evento, ben presto il rischio che nulla venga percepito come tale diventa una certezza. Un caso emblematico, in questo senso, è quello del Marvel Cinematic Universe: se, fino ad Avengers: Endgame, la Marvel era riuscita a creare un universo condiviso, in cui i calendari gregoriani ruotavano intorno alle uscite dei cinecomics invece che all’orbita terrestre, gli anni successivi hanno cominciato a mostrare i primi cedimenti.
Con l’avvento di Disney+ e delle serie collegate all’universo cinematografico, lo spettatore è stato talmente sommerso da nuovi personaggi, nuove storyline, che non solo si è perso il senso di attesa, ma si è annegati in un disinteresse che ha raggiunto il suo culmine poi con The Marvels, di cui non interessava niente a nessuno. L’aspetto fallimentare di questa corsa alla produzione, come se alla base ci fosse una sorta di horror vacui patologico, è messo in mostra, al contrario, dalla riuscita di una campagna marketing come quella scelta dallo Studio Ghibli e Hayao Miyazaki per il film appena uscito in Italia Il ragazzo e l’airone. La campagna pubblicitaria prima dell’uscita ufficiale ha fatto a meno di trailer, first look, poster e persino la sinossi era ridotta a una riga che non diceva praticamente nulla.
L’ultimo film del creatore de Il castello errante di Howl è arrivato per la prima volta in sala senza che nessuno sapesse cosa avrebbe visto sul grande schermo: Hayao Miyazaki ci ha quindi ricondotto all’essenza del cinema, a quella meraviglia che ci spinge a sederci in poltrona per scoprire un universo, non per vedere quello che di fatto sappiamo già. L’ottimo riscontro che il film sta avendo anche nel mercato italiano dimostra che, in parte, il pubblico vuole tornare a questa condizione di spettatore ignaro, di destinatario di una magia che spesso non ha nulla a che fare con la razionalità, il calcolo e il profitto che si celano dietro a qualsiasi operazione cinematografica.
Attesa di un film e qualità: c’è correlazione?
Riconosciamolo: come pubblico, oggi, siamo un’entità problematica. Cinici, spesso presuntuosi, arroganti nel sentirci gli unici detentori di una qualche verità cinefila che gli altri non capiscono. Abbiamo soglie dell’attenzione sempre più basse, non riusciamo quasi più a vedere un film intero senza prendere in mano il telefono almeno una volta, e ci annoiamo con una velocità disarmante. In media, tutto questo è vero. Ma è altrettanto vero che non tutte le colpe possono essere imputabili a chi paga il biglietto e di fatto aiuta questa incredibile industria dei sogni ad andare avanti.
Se è vero che il cinema è lo specchio dei nostri tempi, allora è vero anche che la maggior parte dei film corrono il rischio o di essere presuntuosi – e quindi arroccati dietro uno snobismo che annulla l’accezione popolare con cui il cinema è nato – oppure distratti, veloci, che si consumano in una volta e poi vengono dimenticati. Provate a pensare ai grandi eventi cinematografici degli ultimi anni: a prescindere dal gusto personale e dal livello soggettivo, quanti sono i film che hanno saputo resistere davvero alla temuta prova del tempo? Non quelli che sono piaciuti al nostro circolo di cinefili incalliti, ma quelli che sono rimasti come pietre miliari di un’arte, capaci di fotografare un momento, raccontare qualcosa, rimanere come icone pop e cult. Il numero si assottiglia inevitabilmente negli ultimi anni, non è vero?
Il cinema è un’arte fatta di una magia inspiegabile: se la letteratura può essere vista quasi come un trip che ti permette di avere allucinazioni mentre vedi caratteri stampati su una pagina, il cinema è un’esperienza di condivisione delle emozioni: vedi personaggi che non esistono, interpretati da persone che non conosci e che spesso raccontano storie che non vivrai mai. Eppure, grazie a quella magia di condivisione, tu e altre centinaia di sconosciuti vivete quelle stesse cose, le sentite in modo diverso, ne fate esperienza in modo differente eppure ugualmente valido.
Ma il cinema è anche un arte di conflitto, un’arte che può essere di rottura e rilettura. E per quanto sarebbe lecito aspettarsi che non venga mai meno l’aspetto dell’intrattenimento – per buona pace degli intellettuali snob – è imprescindibile che il cinema abbia sempre una storia da raccontare. Ed è questo che oggi manca, è questo che non sappiamo più aspettare. Non abbiamo più – o comunque ne abbiamo molte meno – storie da raccontare, intrecci che ci coinvolgano a così tanti livelli da far sì che una pellicola rimanga a galleggiare nella nostra coscienza anche dopo che si sono esauriti i titoli di coda.
Perciò ha ancora senso l’attesa di un film?
Torniamo dunque al quesito che ha aperto questa riflessione: ha ancora senso aspettare febbrilmente un film? Ci siamo disabituati alla pigrizia, al lento incedere delle giornate, ai momenti morti in cui l’unico appiglio per non sprofondare nell’indolenza era proprio fantasticare su quello che ci avrebbe riservato il futuro. La precarietà dei nostri tempi ci spinge a ritenerci fortunati anche solo di poterci pensare, a un futuro. Ma al di là delle questioni sociali e internazionali, che sono al di fuori della portata di una semplice riflessione cinematografica, è indubbio che il nostro modo di percepire le uscite cinematografiche sia cambiato. Dire di attendere un film, oggi, equivale ad asserire che sì, siamo curiosi di vedere quel film quando arriverà in sala, ma non c’è (quasi) più la capacità di trasformare un’uscita cinematografica in un vero e proprio evento.
Anche a causa di una produzione costante e folle, che riempie ogni spazio vuoto e molto spesso porta il pubblico a sentirsi più smarrito che coinvolto, l’attesa di un film è ormai quasi un esercizio di stile per i più nostalgici, mentre gli altri si accontentano dell’hype generale e generalizzato, pronto ad essere “digerito” in breve tempo e, successivamente, dimenticato. In un circolo vizioso che porta i grandi studios a produrre ancora di più, appiattendo l’offerta, annullando lo spirito critico, anche gli spettatori finiscono per fare indigestione e l’interesse crolla a picco, riaprendo di nuovo alla corsa alla produzione che genera una generale mancanza di qualità capace di resistere ai capricci del tempo che passa. Oggi l’attesa di un film è un retaggio di una vecchia scuola cinefila, che mal si applica alla corsa forsennata dei tempi moderni. Oggi forse non ci dovrebbe più interessare quanto attendiamo un film prima della sua uscita, ma piuttosto quanto ci spinga a fermarci e a rallentare dopo.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!